Il vino tra i Longobardi e i Goti. La legislazione sulla vite e il vino nel capitulare de villis.

Il vino tra i Longobardi e i Goti. La legislazione sulla vite e il vino nel capitulare de villis.

Come in ogni occasione in cui si parla di “barbari”, questo termine va sempre trattato con molta delicatezza. I significati che il termine “barbaro” può assumere sono molto vari e dipendono sia dal momento storico di cui si sta parlando, sia dalla popolazione (più o meno ampia, dalla tribù all’intero popolo) di cui si sta dibattendo.

L’etichetta di “barbari” era appioppata dal mondo romano a un’eterogenea molteplicità di etnie, diverse l’una dall’altra anche se non necessariamente prive di significative interrelazioni.

Ad ogni modo, la vastità e la quasi ubiquitarietà della presenza romana in Europa hanno reso quasi impossibile l’assenza totale di contatti tra le stirpi “barbare” e i “portatori di civiltà” romani.

Di sicuro c’è che, nonostante le spiccate differenze culturali, alcuni tratti comuni ci sono sempre stati e tra questi, senza dubbio alcuno, c’è lo spirito conviviale.

Nella raffigurazione convenzionale e stereotipata che dei barbari facevano i romani, accanto a una cospicua quantità di difetti assortiti (propensione all’ira e alla violenza, impulsività, insincerità, subdola astuzia, rozzezza di costumi, sporcizia personale) figurava anche la predisposizione per il consumo smodato di bevande alcoliche (oltre che di cibo) e quindi per l’ubriachezza.

barbari nell'immaginario collettivo

In ogni tempo ed in ogni luogo, d’altronde, lo straniero è cattivo, maleducato, falso e incarna tutti i nostri peggiori difetti. I banchetti, le feste dissolute, l’alcolismo dilagante già in epoca imperiale, gli scandali e i tradimenti a tutti i livelli erano quella parte della cultura romana che gli stessi romani volevano rimuovere, per cui l’occasione di raffigurare il peggio di sé nei barbari era più che propizia.

Al contrario, nelle rappresentazioni culturali interne al mondo barbarico, le grandi bevute, in occasioni conviviali, appaiono costituire non solo una pratica comune, ma anche un comportamento carico di specifici valori. Nell’Edda di Snorri Sturluson, una sorta di “bibbia” delle tradizioni nordiche, la condizione ideale degli abitanti del Walhalla, la dimora celeste degli dèi e degli eroi, consisteva nel trascorrere il tempo, oltre che in gare di abilità con le armi e in altri giochi, in interminabili riunioni conviviali, in cui consumare senza freno cibi e bevande.

tavolata barbara nell'immaginario collettivo

Nella società scandinava ma, più in generale, anche nelle altre culture “barbariche” occidentali, il mangiare e il bere in grandi quantità non costituivano solo un piacere per la gola, ma si configuravano come un’autentica prodezza, da esibire magari in apposite sfide a chi riusciva a ingurgitare di più: di simili gare le saghe scandinave offrono numerose descrizioni, in cui ciò che accadeva nel mondo reale viene trasfigurato in ambientazioni ultraterrene.

La cultura greco-latina, invece, si estranea da questa rozzezza barbara anche in tempi molto più recenti. Continuiamo infatti ancora oggi a definire “barbaro” chi, in compagnia di amici in occasioni particolari e, soprattutto, in età giovanile, si lascia andare ad analoghe competizioni, tra sfide di bevute.

sfide alcoliche nei cartoon

una tipica festa universitaria

Anche la cinematografia italiana propone sfide alcoliche e tornei di “birra e salsicce” per vincere una Dune Buggy (rossa con la cappottina gialla), gare di rutti ecc. La storia, in casi come questi, insegna solo a riversare su altri le proprie debolezze.

Terence Hill e Bud Spencer - birra e salsicce da "Altrimenti ci arrabbiamo"

In specifiche circostanze, quali ad esempio le celebrazioni per una vittoria in battaglia o il banchetto per suggellare un’amicizia o un’alleanza, gli eccessi nel consumo di alcolici erano talmente consueti da risultare del tutto prevedibili nei loro esiti.

Nella narrazione di Paolo Diacono (fuori dunque dal contesto scandinavo) risultava come naturale e ovvio lo stratagemma adottato dai longobardi, i quali avevano strategicamente abbandonato ai nemici franchi un proprio accampamento, ma solo per attendere nascosti nei pressi che i nemici si abbandonassero all’inevitabile sbornia collettiva tesa a celebrare il successo, in modo da poterli sorprendere ebbri durante la notte e farne strage.

Esattamente lo stesso stratagemma che nella cultura classica viene descritto da Omero nell’episodio del cavallo di Troia nell’Iliade, o che poi si ricorda in occasione della prima battaglia della guerra tra romani e Histri nel 178 a.C. Che fossero i troiani ad abbandonarsi a festeggiamenti per la fine dell’assedio o gli Histri a saccheggiare il campo romano prosciugando le scorte di vino, poco importa. L’abitudine di festeggiare la vittoria con una colossale bevuta era diffusa ovunque perché, probabilmente, insita nello spirito umano.

Ritornando alle stirpi “barbare”, appare evidente che fossero in modo preponderante consumatori di birra, più facile da preparare in zone inadatte alla coltivazione della vite (oltre che di altre bevande alcoliche ottenute per fermentazione), ma è anche noto che il vino era diffusissimo in tutto l’Impero romano e che molte delle stirpi “barbare” che scesero in Italia a partire dal IV secolo erano romanizzate. Quindi la loro conoscenza e dimestichezza con il vino era certa.

Ci vengono in soccorso, in merito al consumo piuttosto diffuso del vino da parte dei barbari, alcune pagine della, seppure scarsa, letteratura dell’epoca.

 


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Il vino: dagli albori alla fine dell’impero romano


 

Il vino nella dominazione Longobarda

Paolo Diacono, nella sua Historia Langobardorum, inserisce il vino come elemento centrale di una azione in almeno tre episodi.

Teodolinda e Agilulfo

Nella promessa di matrimonio fra la regina Teodolinda, la vedova del re Autari, e l’allora duca di Torino Agilulfo, Teodolinda, incontrato a Lomello Agilulfo, fece portare del vino e ne bevve per prima; quindi offrì la medesima coppa, con quanto restava del liquido, ad Agilulfo, perché terminasse di vuotarla, e gli chiese di darle un bacio, con l’intento di esprimere la volontà di renderlo suo sposo.

Teodolinda sposa Agilulfo

Grimoaldo e Pertarito

Un altro episodio è quello relativo all’inganno ordito dal nuovo re Grimoaldo a danno del suo ostaggio Pertarito, il re che egli stesso aveva spodestato. Quest’ultimo si era consegnato al vincitore, ricevendo la promessa di aver salva la vita e di essere trattato con onore; ben presto, tuttavia, Grimoaldo cambiò idea, convinto da alcuni cattivi consiglieri che Pertarito rimaneva un pericoloso concorrente per il trono grazie al sostegno popolare, e che era quindi preferibile assassinarlo. Grimoaldo organizzò dunque un tranello, mirando a far ubriacare il rivale per poi poterlo sorprendere ubriaco nel sonno. Ma Pertarito ricevette una soffiata sull’intento del re e ingannò i commensali bevendo solo acqua, appositamente predisposta dal suo coppiere in un calice d’argento, ogni qualvolta costoro lo spingevano a vuotare in un sol sorso il bicchiere, per brindare in onore del re.

A fine banchetto Grimoaldo, sicuro del successo di suo piano, si lasciò anche andare allo scherno ed al disprezzo per l’ebbrezza del suo avversario.

Pertarito però approfittò dell’occasione per fuggire travestito da servo, coperto dal fedele Unulfo, che riferì alle guardie che il suo padrone era come morto per quanto aveva bevuto.

La narrazione romanzata dal Diacono della vicenda del tentato omicidio di Pertarito ad opera di Grimoaldo permette di percepire alcuni aspetti legati al consumo del vino nell’Italia di tradizione longobarda, tra VII e VIII secolo. Innanzitutto l’alcol del vino si conferma poter essere un mezzo che agevola un delitto. Inoltre, si nota come lo smodato consumo di vino e di alcol sia considerato un comportamento naturale in determinati contesti e rientri in una precisa prassi, propria del banchetto. Si evince anche la contaminazione morale cristiana di Paolo Diacono che biasima e deride l’ubriachezza, attraverso le parole di scherno e disprezzo rivolte da Grimoaldo a Pertarito, da lui creduto sbronzo.

L’episodio di Rosmunda

Il vino compare anche nel celeberrimo episodio del macabro brindisi cui venne costretta la regina Rosmunda dal proprio marito Alboino, il quale le offrì da bere proprio del vino in una coppa ricavata dal cranio del padre. La reminiscenza scolastica del “Bevi Rosmunda dal cranio di tuo padre” è chiara in tutti noi.

Rosmunda e Alboino

Il fatto descritto da Paolo sembra potersi riconoscere in una sostanziale veridicità (egli dichiara, oltretutto, di aver visto con i propri occhi la tazza molto tempo dopo, alla corte del re Ratchis), considerando come la pratica di conservare il cranio dei nemici uccisi sia testimoniata presso diverse culture antiche e crani montati a coppa siano documentati – tra l’altro – presso gli avari, con i quali i longobardi ebbero intensi rapporti durante il loro lungo soggiorno in Pannonia. Dal teschio del nemico ucciso si riteneva di poter assorbire la virtus del medesimo e, almeno in epoche remote, l’utilizzo di simili oggetti doveva essere conseguente allo svolgimento di pratiche cannibali che, già desuete al tempo di Alboino.

Il periodo dei Goti

Passando dai Longobardi ai Goti, in una lettera, poi raccolta nelle Variae, (533 o 534) Cassiodoro chiedeva, per conto della corte di Ravenna, la fornitura del delizioso vino dei produttori veronesi, del quale venivano nella circostanza magnificate le qualità senza pari.

La richiesta della corte era relativa al vino definito «acinaticium», un tipo di passito che si può riconoscere nell’attuale recioto, che veniva ricercato appunto nella zona di Verona. Tale prodotto veniva descritto come il vanto dell’Italia per il suo colore purpureo, degno quindi di un re, e per il suo sapore unico; si rammentavano pure le fasi principali della sua produzione, dalla conservazione dell’uva in specifici contenitori, perché perdesse i «fatui humores» e concentrasse gli zuccheri, divenendo dolce, all’esposizione all’aperto durante l’inverno, per asciugare e maturare, sì da essere infine spremuta allorquando i vini normali cominciavano invece già a invecchiare.

 

grappoli in appassimento per l'ottenimento del recioto

Il gradimento, del re goto e della sua corte per l’acinaticium chiesto ai veronesi testimonia, oltre all’evidente consuetudine al consumo di vino, anche una certa “educazione” al bere che potrebbe essere inaspettata in soggetti di origine barbara, quali erano i Goti. La richiesta non è infatti di vino in senso generico, per quanto di alta qualità, ma di un prodotto particolare, molto zuccherino che poco si adattava sia alla dieta che ai banchetti smodati di cui si è detto. Oggi si direbbe un “vino da meditazione”, più adatto a un filosofo che a un barbaro.

Si desume dunque che i Goti avessero, in quell’epoca, una piena familiarità con il vino, alimento che costituiva una parte integrante della loro dieta quotidiana, tesi avvalorata anche dal fatto che nei beni primari che vennero descritti come necessari per superare, nel nord Italia, la carestia conseguente alla guerra gotico-bizantina, ci fosse anche il vino.

I secolari contatti con il mondo romano avevano permesso anche alle stirpi provenienti da  territori in cui il clima non consentiva la coltivazione della vite di conoscere e apprezzare il vino e di introdurlo fra i propri usi alimentari. Insomma, le stirpi barbare che avevano frequentato la romanità e che si erano infine progressivamente stanziate sul suolo dell’impero non solo dimostravano di gradire il vino, ma, per così dire, lo avevano assunto appieno nella propria quotidianità di vita ed entro i propri stessi orizzonti culturali.

Il vino e la vite nella legislazione dell’alto medioevo

Le nuove legislazioni portate dai Longobardi e dai Goti hanno lasciato pressoché inalterata la struttura dello ius romano, perlomeno per quanto riguardava la popolazione autoctona. Le modifiche importanti all’apparato giuridico riguardavano essenzialmente i diritti tradizionali di stirpe e originariamente applicati ai soli membri delle tribù e della gens. In ogni caso nel diritto longobardo, codificato nell’Editto del re Rotari e dei suoi successori, e dei capitolari emanati nel regnum Langobardorum dai monarchi franchi dopo il 774 si ritrova qualche indicazione circa la coltivazione della vite e il consumo di vino nell’Italia di tradizione longobarda.

Dei trecentottantotto capitoli di legge in cui si articola l’Editto di Rotari, emanato nell’anno 643, appena cinque si riferiscono esplicitamente alla viticoltura. I capitoli rotariani sulle viti si trovano raccolti di seguito l’uno all’altro, dal 292 al 296, all’interno di un blocco sufficientemente omogeneo di una ventina di norme, tutte più o meno inerenti la sfera agricola.

Nei capitoli che si riferiscono alle viti viene presa in considerazione, innanzitutto, la fattispecie del saccheggio, compiuto asportando più di tre o quattro elementi di sostegno da una vite, oppure sottraendo il palo di sostegno, ovvero sradicando completamente la pianta dal filare; quindi, si passa a valutare l’asporto indebito di un tralcio di vite da una vigna altrui, o di grappoli d’uva in numero superiore a tre (al di sotto di tale soglia la sottrazione non era calcolata come un furto).


Editto di Rotari

Il furto di un elemento o di un palo di sostegno di una vite era assimilato all’appropriazione indebita di un qualsiasi oggetto di legno e si applicava perciò la medesima composizione, notevolmente più elevata rispetto al caso di semplice distruzione della vite: oltre al danno arrecato alla coltura si puniva anche la sottrazione del materiale, che non doveva costituire fenomeno raro, vista la specifica attenzione dell’Editto per tale reato.

Vi sono cenni simili anche nei codici altomedievali del diritto germanico, che non entrano quasi mai nello specifico ma che testimoniano la presenza e l’importanza della viticoltura anche nell’Europa continentale.

Un esempio è rappresentato dalla legge dei bavari, nella quale si possono riscontrare sia misure tese a risarcire eventuali danni arrecati alle vigne, o a prati, da animali sfuggiti al controllo dei loro mandriani o pastori. In questo senso ci sono evidenti analogie con alcune norme presenti nel corpus delle leggi degli alamanni e in quello dei visigoti. Una di queste norme, contiene un raro accenno alle diverse fasi della coltivazione della vite, fino alla vendemmia, compresa la menzione della tecnica della messa a propaggine.

 

L’età carolingia e il capitulare de villis

Bisogna arrivare al VIII e IX secolo, con la stirpe carolingia e con Carlo Magno in particolare, per trovare un corpus di norme più specifiche sulla viticoltura e sul vino, che ne dimostra l’importanza e la diffusione capillare sul territorio. Il vino viene evocato in rapporto ad abusi nelle esazioni da parte di autorità. Si cercava di contrastare l’abitudine di molti duchi e di altri ufficiali minori (gastaldi, vicari, centenari e restanti ministeriales) di prelevare indebitamente vino, e carne, dai contadini che lavoravano le terre di uomini liberi o della chiesa e ci si preoccupava di fissare un tetto alle esazioni compiute dai vescovi a carico dei propri arcipreti quando giravano la diocesi per impartire il sacramento della cresima, stabilendo che – accanto ad altri beni (animali, pane, uova, miele, olio, cera, fieno e foraggio) – si potessero prelevare non più di 50 sestari di vino.

Il vino risulta quindi da simili testimonianze un prodotto di larghissimo consumo nell’Italia del IX secolo, ricercato fra i primi, fino ad essere prelevato tra gli altri generi alimentari più comuni da chi ne aveva la facoltà o la semplice possibilità materiale. La sua centralità nella dieta quotidiana si ricava, per contrasto, da disposizioni contenute in due capitoli tramandati singolarmente, attribuiti alternativamente a Lotario: con questi si imponeva come punizione e penitenza l’astinenza dal vino e dalla carne (per periodi di trenta o quaranta giorni) a vescovi e conti che avessero trascurato di castigare debitamente loro uomini, i quali si fossero resi protagonisti di rapine o altre violenze.

La principale fonte di informazioni, tra i testi normativi, sull’importanze e la diffusione della coltivazione della vite nell’età carolingia, è il notissimo capitulare de villis.

il capitulare de villis (clicca sulla figura per espandere l'immagine)

Il testo è volto a regolamentare, in settanta capitoli complessivi, la corretta gestione delle villae, cioè delle aziende in cui era ordinato il patrimonio fiscale dei monarchi franchi.

Sui settanta capitoli in cui è articolato il capitulare de villis almeno nove includono disposizioni sulla coltivazione delle viti e soprattutto sulla produzione del vino. Insistita è l’esortazione rivolta agli iudices preposti alle villae perché vigilino scrupolosamente su ogni fase della vendemmia e della produzione e poi della conservazione del vino.

In particolare, e in modo piuttosto moderno, si impone che:

 

8- Che i nostri funzionari si incarichino delle vigne, che appartengono al loro ufficio, e le facciano ben coltivare,che mettano il vino in buoni recipienti e veglino diligentemente a che non vada in alcun modo perduto. Se è necessario procurarsi altro vino, che lo facciano acquistare in località donde possano condurlo alle nostre ville. E se avviene che ne sia acquistato più di quanto ne abbisogni alle nostre ville, che essi ce ne preavvertano affinché ci sia possibile esprimere la nostra volontà al riguardo. Che essi destinino a nostro uso il prodotto delle nostre vigne. Che essi mettano nelle nostre cantine i versamenti in natura delle ville che devono consegnare del vino.

22- Chi coltiva vigne, tenga non meno di tre o quattro corone di grappoli.

48- I torchi nelle nostre villae siano efficienti e ben funzionanti. I nostri funzionari provvedano affinché nessuno si permetta di pigiare la nostra uva con i piedi, ma tutto si faccia con decoro e pulizia.

68- Vogliamo che ogni singolo funzionario abbia sempre pronti dei buoni barili cerchiati di ferro, che possano essere utilizzati nelle spedizioni militari o inviati a palazzo, e non faccia mai otri di cuoio.

 


Scritto da:

Andrea Acanfora


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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