Il vino è la bevanda storicamente più diffusa nelle culture eurasiatiche dell’antichità. La sua presenza presso tutte le grandi civiltà del passato fa sì che la sua origine storica sia talmente dibattuta da farne prevalere l’origine mitologica.

Le origini

Il vino è la bevanda storicamente più diffusa nelle culture eurasiatiche dell’antichità. La sua presenza presso tutte le grandi civiltà del passato fa sì che la sua origine storica sia talmente dibattuta da farne prevalere l’origine mitologica.

Si sa per certo che l’origine del vino è l’odierno medio oriente, non è dato di sapere se sia stata l’Anatolia, l’Egitto o la Mesopotamia.

La coltivazione della vite volta alla produzione del vino, infatti, si situa intorno al 4000 a.C., risalendo addirittura al 6000 a.C. nelle regioni montuose del Mar Nero e del Mar Caspio, in una zona delimitata dagli stati odierni della Turchia, Siria, Iraq, Iran e Russia, in quella che possiamo definire come la probabile patria della viticoltura, a nord delle grandi pianure del Tigri e dell’Eufrate, dove al tempo si trovavano gli imperi sumerico, accadico, assiro e babilonese, o più ad est, l’impero ittita, in corrispondenza dell’attuale Turchia.

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zone vitivinicole del vicino e medio oriente

 

Il ritrovamento archeologico più antico per quanto riguarda la produzione volontaria e pianificata del vino è quello di Areni, nell’Armenia meridionale, a poca distanza dal monte Ararat. Qui sono stati portati alla luce, in una grotta, su una ampiezza di quasi 700 m2, manufatti destinati alla produzione del vino e contenitori per la sua conservazione datati, grazie al ritrovamento di resti umani, al 4000 a.C. Nel sito sono stati ritrovati anche i semi della vitis vinifera, il che permette di affermare che si tratti del più antico ritrovamento di una vera e propria coltivazione della vite a scopo enologico.

Il vino nell’antico medio oriente

Altre proto cantine sono venute alla luce in diversi siti medio orientali:

  • nella piana di Kangavar, in Iran (3500 a.C.), dove sono stati rinvenuti contenitori, imbuti e un strumento arcaico ma simile a quelli odierni per spremere gli acini senza rompere i vinaccioli
  • in Palestina a "Tell esh-Shuna" (3700 – 3200 a.C.)
  • nell’attuale Giordania a Gerico, Arad, Lachish, "Tell es-Sa'idiyeh" e a "Numeira"  dove il sito di "Tell Ta'annek" ha restituito una cantina datata attorno al 2.700 a.C., con un'area di pigiatura scavata nella roccia e comunicante con un serbatoio di forma rettangolare, ulteriore testimonianza di una tecnologia produttiva già sviluppata
  • in Israele nel 3200 a.C. il vino era già oggetto di esportazione verso altre terre, come testimoniano ritrovamenti in varie tombe

Il vino nell’antico Egitto

Nell’antico Egitto il vino svolse un ruolo peculiare nei cerimoniali fin dalla III dinastia (2700 a.C.)

La prima rappresentazione del procedimento di vinificazione è stata realizzata dagli egizi nel corso del III millennio a.C. su bassorilievi raffiguranti scene di pigiatura dell'uva (circa 2500 a.C.).

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il ciclo del vino nell'antico Egitto

 

Dai ritrovamenti di anfore vinarie in diverse tombe egizie e, soprattutto, da quelle ritrovate nella tomba di Tutankhamon, sappiamo che il vino egizio era prevalentemente rosso. Da Plutarco sappiamo però che almeno fino al 600 a.C. i faraoni non bevevano il vino rosso, in quanto lo reputavano il ritorno sulla terra del sangue versato dai nemici contro di loro in battaglia ed allo stesso modo l’ubriachezza che derivava dal consumo di vino una sorta di pazzia indotta proprio dall’essere colmi del vino degli antichi nemici.

Il vino in Mesopotamia

In Mesopotamia, nonostante la coltivazione della vite fosse diffusa fin dal 3000 a.C., la bevanda più diffusa era comunque una specie di birra, che richiedeva minori capacità produttive e di conservazione e che, soprattutto, poteva essere preparata durante tutto l’anno.

Nel mescolarsi ed influenzarsi delle civiltà mesopotamiche, tra testi antichi ed usanze, sappiamo però con certezza che queste società già consumavano il vino. I Babilonesi ad esempio veneravano la Dea Geshtin, madre della vite, e nel loro Mito del Diluvio raccontano di Dercos Haelius, il marinaio del vino nuovo che, come il Deucalione greco o il Noè biblico, ripopolò la Terra.

Il vino in Libano

I Fenici furono il popolo principe per la diffusione della vite e della viticoltura in tutto il bacino del Mediterraneo. I loro vini furono considerati per lungo tempo tra i migliori di tutto il bacino del mare nostrum. I Fenici  contribuirono a distribuire il vino, l'uva e la tecnologia ad essi correlate in tutta le regione del Bacino del Mediterraneo attraverso la loro vasta rete commerciale. Venne ampiamente adottato l'uso di anfore per il trasporto e le varietà di uve provenienti dai territori fenici risultarono importanti nello sviluppo delle industrie vinicole sia dell'Antica Grecia prima che dell'Antica Roma poi.

L'unica ricetta di Cartagine sopravvissuta alle guerre puniche fu quella di Magone il Cartaginese per ottenere il Vino passito, una varietà che divenne in seguito popolare anche nell'impero romano con il nome di passum.

Proprio questa ricetta viene ancora oggi presa come riferimento per la produzione del Passito di Pantelleria, isola che al tempo di Magone faceva parte dell’impero cartaginese.

“Si raccoglievano i grappoli maturi, avendo cura di eliminare quelli ammuffiti o guasti, poi si esponevano al sole su una canna, curando di proteggerla dalla rugiada, coprendoli durante le ore della notte. Quando i grappoli erano diventati secchi si staccavano gli acini in una giara ricoprendoli di mosto. Dopo sei giorni si spremevano e si raccoglieva il liquido. Ultimata questa operazione, si pigiava la vinaccia aggiungendovi del fresco fatto con altra uva tenuta al sole per tre giorni. Infine sigillava il vino in vasi di creta, da aprirsi dopo una fermentazione di venti, trenta giorni…”.

Il vino nell’antica Grecia

Gran parte della moderna coltura vinicola deriva direttamente dalle pratiche messe in opera nell'Antica Grecia.

Molte delle uve coltivate nella Grecia moderna sono del tutto simili o addirittura identiche alle varietà coltivate nei tempi antichi; in effetti il più popolare tra i vini greci contemporanei (anche se non più propriamente un “vino” come lo si intende nell’accezione moderna del termine) è un bianco fortemente aromatizzato denominato Retsina, che è una rivisitazione dell'antica pratica di rivestimento delle brocche contenenti il vino con resina vegetale, il che conferisce un sapore distintivo alla bevanda.

Il vino è onnipresente nella letteratura greca e nella mitologia sia relativa agli dei che agli eroi. Il dio Dioniso con il suo corteo di Menadi, Satiri e Centauri danzanti e dove - tra gli altri - spiccano le figure di Priapo, Pan e Sileno sono sempre incaricati, grazie al vino, d'una missione civilizzatrice a testimonianza di quanto il vino fosse considerato elemento di unione tra i popoli. Secondo il mito Dioniso insegnò al giovane Oreste l'arte di fare il vino e la capacità di coltivare la vite. Anfizione, figlio di Deucalione e Pirra (i sopravvissuti al diluvio), prescrisse di diluire il vino con l'acqua nell'intento di mitigarne gli effetti alcolici.

In pratica, qualunque sia la cultura antica che si possa prendere in considerazione, i sopravvissuti al diluvio sono gli artefici del “miracolo” di trasformare l’acqua (il succo d’uva) in vino (la bevanda inebriante).

banchetto degli dei (Apollo, Dioniso, Hermes)

Nella letteratura greca di Omero ed Esopo Dioniso, divinità della baldoria e del vino, viene spesso identificato con il termine di “Acratophorus”, cioè distributore di vino non mescolato. Era infatti tipica l’abitudine degli antichi greci, probabilmente a causa del clima particolarmente caldo durante l’estate, di consumare il vino mescolato all’acqua in un vaso detto appunto “cratere di miscelazione” (si ritrovano vari passi in Omero relativi a questo modo di consumare il vino)

Cratere greco (cratere di Euphronius)

Il vino in Gallia

La coltivazione della vite venne introdotta in Gallia da coloni greci approdati vicino all’odierna Marsiglia (nella colonia di Massalia in Provenza), mentre il vino fu portato dai mercanti Etruschi alla fine del VII secolo a.C. . Per secoli il vino rimase a beneficio dei coloni orientali, in quanto i Galli non bevevano il vino puro, assimilandone il colore al sangue. Dal VI secolo a.C. fino al I secolo la viticoltura scomparve da tutta la Gallia, per poi farvi ritorno con la dominazione romana, in quanto solo i cittadini romani avevano il diritto di coltivare la vite. A causa delle continue guerre tra tribù galliche e tra romani e Galli il vino rimase un prodotto di importazione molto prezioso. Gli storici del tempo narrano che un’anfora di vino valesse, in Gallia, quanto uno schiavo.

Solo nel primo secolo, grazie a una conquista più capillare del territorio, si iniziò a produrre vino nella Gallia Narbonense (l’attuale Francia meridionale comprendente le attuali zone vitivinicole di Languedoc-Roussillon e Provence-Alpes-Côte d'Azur)  e i vini di queste zone iniziarono, ben presto, a competere con i migliori vini del resto dell’Impero.

La più importante unità vinicola dell'Antichità, la "Villa di Molard", è stata scoperta proprio in questa zona; la sola azienda di produzione e conservazione (l’attuale cantina) si estendeva su 2 ettari. Il magazzino dei vini, si componeva di due ripiani contenenti 204 Dolium (anfore di terracotta) disposti in 6 allineamenti ciascuno e con una capacità di 1,2 ettolitri. A ciascuna delle estremità un vasto spazio per la pigiatura in cui si trovavano 2 torchi vinari.

antichi dolia romani

L'azienda, datata tra il 50 e l'80 a.C., aveva una capacità produttiva di almeno 2.500 ettolitri annui (più o meno 300.000 bottiglie attuali). La resa dei vitigni romani è stata stimata a 12 ettolitri per ettaro (oggi i disciplinari DOC più rigidi limitano la produzione a 80 quintali di uva per ettaro, con una resa di circa 60 ettolitri, mentre per il vino da tavola si arriva a superare una resa di 200 ettolitri per ettaro); la tenuta aveva 300 ettari, per cui richiedeva una mano d’opera di più di 150 schiavi (un numero di lavoratori paragonabile a quelli necessari oggi se si facesse una lavorazione tutta a mano di una superficie vitata di analoghe dimensioni). Tutta o parte della sua produzione veniva spedita in barili lungo il Rodano, come mostra la scena del I secolo raffigurata sulla stele di Colonzelle situata nelle vicinanze.

la stele di Colonzelle

Il vino nell’epoca romana

La vite cresceva già spontanea nella penisola italica prima della fondazione di Roma e non vi è ragione di dubitare che le diverse popolazioni autoctone, che da secoli avevano contatti con le altre popolazioni mediterranee, non ne conoscessero l’utilizzo per la produzione del vino.

Con lo sviluppo dell’Impero Romano la coltivazione della vite e la produzione di vino ebbero uno sviluppo enorme, perché questo era parte integrante della cultura e dell’alimentazione della popolazione di ogni ceto. Dalle fonti storiche sappiamo che problemi sociali di alcolismo iniziarono ad apparire a Roma nel I secolo a.C.

Anche nella religione pagana il Dioniso greco si trasformò nel Bacco latino, molto meno aulico sia nell’aspetto che nel riferimento divino. In effetti il nome Bacco, con cui i romani chiamarono Dioniso, non era altro che la latinizzazione del nome greco Bakkhos, che indicava lo stato di alterazione del dio Dioniso nella sua possessione estatica (leggi ubriachezza).

Bacco sorretto da un amico in un mosaico romano

Il culto di Bacco, proprio per gli eccessi a cui portavano le feste ad esso dedicate, i celebri baccanali, fu proibito nel 186 a.C. attraverso un decreto del Senato (Senatus consultum de Bacchanalibus). I baccanali, essenzialmente dei festini a luci rosse nei quali il vino scorreva a fiumi, erano divenuti così importanti da essere frequentati da senatori, personaggi pubblici e patrizi, molti dei quali all’emissione del decreto preferirono togliersi la vita piuttosto che affrontare lo scandalo.

Al posto di Bacco fu imposta la venerazione di Liber, un semidio assurto alla divinità, i cui culti erano più morigerati di quelli di Bacco, nonostante dal suo nome sia rimasto l’aggettivo “libertino” per indicare un uomo di facili costumi.

La coltivazione della vite, in ogni caso, anche grazie a un periodo con un clima particolarmente mite, si estese con le legioni in tutto l’impero. Il vino veniva prodotto anche sull’isola britannica. Essendo una coltivazione molto redditizia, divenne preponderante sui territori dell’Impero, tanto che nel 92 d.C. l’imperatore Domiziano promulgò le prime leggi relative alla viticoltura, proibendo nuovi impianti e facendo espiantare quasi la metà del territorio vitato d’Europa, in quanto questa coltivazione metteva in crisi il fabbisogno di grano dell’Impero.

espianto delle viti per il decreto di Domiziano

 In realtà il decreto di Domiziano fu ampiamente disatteso fino alla sua abolizione nel 280 d.C.  ad opera di Marco Aurelio Probo.

Appare evidente che una tale diffusione della viticultura abbia portato da un lato il vino ad essere una bevanda di massa e dall’altro lato ne abbia affinato tecniche, incroci e sperimentazioni, per un (ancora puntuale) incremento della qualità dei vini prodotti.

Il concetto di bevanda di massa, relativo al vino, si sposa anche con il concetto di “alimento”. Se da un lato è vero che il vino inebria e negli eccessi ubriaca e stordisce il consumatore, dall’altro lato ha un apporto calorico non indifferente ed è un ottimo accompagnamento del pane per l’alimentazione durante le giornate lavorative all’aperto. La doppia funzione di antidepressivo e di alimento lo rese in tutto l’impero bevanda principe di contadini e soldati.

Per quanto concerne la vinificazione vera e propria, i vini erano generalmente vinificati in bianco, anche se la maggioranza delle uve coltivate in Europa erano a bacca rossa. La penisola italiana, assieme alle zone costiere dell’Adriatico, costituivano un’eccezione con la coltivazione di diverse varietà di uva a bacca bianca. La macerazione non si effettuava quasi mai così come la torchiatura, che aveva bisogno di attrezzature costose che non tutti potevano permettersi.

In periodo imperiale si iniziarono a definire zone di produzione e relative denominazioni dei vini, una sorta di DOC dell’antichità, della quale forse la più celebre fu quella del Falernum, situata tra il Lazio e la Campania, per la quale si riconobbero tre sotto denominazioni: il "Cauciniano Falerno" delle pendici più alte, il "Faustiano Falerno" del centro (così chiamato dal nome del suo proprietario Fausto Cornelio Silla, il figlio di Lucio Cornelio Silla) e il "Falerno generico" dei versanti inferiori e della pianura.

Esiste comunque un elenco dei vini in commercio nell’Impero romano, nel quale, con un po’ di pazienza, ognuno può trovare un riferimento al suo bicchiere preferito: Adrumenjtanum, Aglianicum, Alba Lux, Albanum , Albarenzeuli, Albarolum, Aleaticum, Apianum, Bellonam, Beneventanum, Biblinum, Brachetum, Caecubum, Calenum, Catiniense, Cauda Vulpis, Caesanum, Caeretanum, Columbinum, Cumanum, Falanghinum, Falenum, Falernum, Faustianum, Fondianum, Formianum, Galiae, Gutturnium, Garganecum, Gauranum, Graecum, Hadrianum, Hispanicum, Lesbicum, Liternum, Maroneum, Massicum, Marsiliae, Memertinum, Moscatum, Nascum, Nomenianum, Nuragum, Opimiam, Pelignum, Pipernum, Pollium, Pompeianum, Portolanum, Potitianum, Praecianum, Prenestinum, Pranninum, Preatorianum, Pucinum, Raeticum, Sabinum, Senianum, Sciiticum, Setinum, Sorrentinum, Tarentinum, Tauromenitanum, Tibertinum, Trebellum, Trifulinum, Vaietanum, Velleranum, Vernaculum, Vaticanum, Volturnum.

Va comunque sempre tenuto in considerazione che il vino romano era consumato sempre dopo una “preparazione” e molto raramente consumato puro. Solo pochi dei vini in elenco avevano struttura e tecnologia di produzione tali per cui non si ritrovassero ben presto soggetti alla naturale evoluzione ossidativa (e spesso probabilmente a principi di acetificazione) che ne obbligavano il consumo con aggiunta di miele e spezie.

La progressiva decadenza dell’impero ad opera delle incursioni barbariche ha portato a un progressivo abbandono della coltivazione della vite (che richiede cure continuative nel tempo). Fortunatamente il vino era parte essenziale della liturgia cristiana, religione che nel frattempo era divenuta “di stato” e fu quindi proprio grazie alle diocesi ed ai monasteri che la cultura enologica fu preservata (soprattutto grazie ai monaci Colmbaniani e Benedettini) e sviluppata, approfondendo gli studi dei trattati antichi e imparando, anche, dalle nuove tradizioni basate dalle esperienze che i popoli nordici portarono con loro.

 

 

Fabrizio Spaolonzi - https://www.thefreak.it/

Il passito di Pantelleria

Fulvio Colombo - https://www.scriniumadriae.it/vinumadriae/index.php

 

 


Scritto da:

Andrea Acanfora