Nel 1313 fu sventata una congiura messa in atto dai per far nascere una signoria a Trieste.

All’inizio del 1300 il giovane Libero Comune di Trieste cercava di consolidare la propria libertà difendendosi dai nemici esterni: i baroni della Carsia, il conte di Gorizia, il Patriarca di Aquileia che non vedeva di buon occhio il consolidamento democratico della città, Venezia, che covava risentimento verso Trieste (forse a causa del ratto delle spose veneziane, perpetrato da alcuni pirati triestini verso la metà del X secolo, ma più probabilmente per ragioni economiche) pensava di metterla tra le sue sudditanze, e Muggia.
Comperata la libertà dal Vescovado (grazie alla corporazione dei Mercanti), riedificato parte delle mura, riunite in un unico edificio le due chiese sul colle (quella che oggi è la Basilica di San Giusto), aperta una scuola pubblica, riformati gli Statuti e provveduto ad armarsi a scopo difensivo, Trieste mirava alla prosperità ed alla pace.
Oltre ai nemici esterni, il Comune doveva parare gli attacchi dei nemici interni.
Queste erano le condizioni in cui Trieste cercava di consolidare la propria indipendenza.
Nel 1313 avvenne un fatto tragico che fu riscoperto solo cinque secoli dopo, ed oggi conosciuto come “La congiura dei Ranfi”.

Chi era Marco Ranfo, che fu definito “traditore della patria”?

Già difensore in più occasioni del Comune di Trieste, console, ambasciatore del Comune e plenipotenziario alla Pace di Treviso, fu mandato a morte nel 1313 insieme ai suoi figli maschi; le donne della famiglia furono bandite e le case rase al suolo.

Furono distrutti anche gli atti del processo, sicché fino a noi è arrivata solo la dura sentenza di condanna, ma senza la motivazione.

Per spiegare l’ episodio c’è chi parla di tradimento a favore di Venezia, chi afferma al contrario che Ranfo volesse riavvicinare la città al Patriarcato di Aquileia e chi, ancora, sostiene che intendesse restituire il potere ai Vescovi in quanto era uno dei principali vassalli del vescovo e da questi era stato anche deputato a presiedere la curia feudale. L’ipotesi più accreditata è tuttavia che il patrizio volesse proclamare la propria signoria sulla città (versione accreditata dal Tamaro).

Anche nella città di Trieste come in altre città italiane, il Maggior Consiglio del Comune era in mano a poche potenti famiglie. La paura che una famiglia prevalesse sull’altra incombeva sulla città poichè la tentazione era forte, e sicuramente fra le famiglie tergestine primeggiava la casata dei Ranfi: non a caso furono i Ranfi a tenere a battesimo il primo statuto del libero comune.

Nel 1290 Marco Ranfo è Rettore, nel 1293 Delegato del Comune, nel 1304 viene nominato dal vescovo di Trieste suo luogotenente nella Curia dei Pari. E come crescevano il potere e la ricchezza dei Ranfi, così crescevano il timore e l’invidia nelle altre famiglie.

Agli inizi del XIV secolo la politica del Comune oscilla tra Venezia e il patriarcato di Aquileia, che è in lotta con il conte di Gorizia per il controllo del Friuli.

Queste oscillazioni contribuiscono non poco a rinfocolare le continue tensioni interne alla città, con eccessi di violenza e di rapine, lamentati ripetutamente nei documenti dell’ epoca. La storia della “congiura dei Ranfi” ignorata dallo Scussa e da Ireneo della Croce, fu riesumata dal Rossetti e dal Kandler ed ebbe un’ampia diffusione popolare a Trieste nell’Ottocento su giornali e riviste.

Pochi sono i documenti certi e diverse le interpretazioni: si sa solo che al suo rappresentante più influente, il “traditore” Marco Ranfo, ed ai suoi eredi e seguaci per mezzo secolo (dal 1315 al 1365) gli statuti comminarono pene durissime.

Ma non dovettero essere i soli ad incorrere nell’ira di quelli che allora detenevano il potere: un documento del 1311 testimonia che a quel tempo le terre del Friuli erano già piene di esuli triestini, fuggiti o espulsi dalla città in seguito alle continue lotte interne.

Nel frattempo i rapporti con l’Istria, che poco alla volta stava cadendo sotto il dominio veneziano e a cui Trieste geograficamente e storicamente era appartenuta, si attenuavano sempre più.

Sulle colpe e sulla “congiura dei Ranfi” permane e permarrà probabilmente un grande mistero.  Secondo Lino Monaco la famiglia dei Ranfi fu arrestata nel suo palazzo di Cavana mentre -pare – stesse tentando di rifugiarsi nel vicino convento dei padri Minoriti. Secondo Fabio Calabrese in “Cronache moderne del Friuli celtico XXXV” Marco Ranfo mori avvelenato prima di presentarsi davanti ai giudici, forse da un complice che aveva voluto tappargli la bocca: non ci sono altre conferme a questa versione ed anzi Lino Monaco parla dell’ esecuzione della sentenza per Marco Ranfo e i figli Giovanni e Pietro nel settembre 1313. Un’altra versione ancora ipotizza che Marco Ranfo fosse un Templare: la data – il 1313 – è perfetta ma non risultano templari a Trieste all’ epoca.

G. Tominz - La cacciata dei Ranfi

Nell’Archivio Diplomatico del Comune, è custodito un antico codice su un’ingiallita pergamena ornato di lettere iniziali nelle quali si vedono i tergestini del Trecento con le loro colorate vesti. Sulla prima carta di questo codice sta scritto: “Statuta civitatis Tergesti de anno 1350”. Sono le leggi antiche della nostra città. Alla Rubrica XXV del secondo libro leggiamo: “Rubrica de Ranfis et eorum sequacium” qui di seguito tradotta.

 

“Decretiamo e ordiniamo che chiunque tratterà di dar aiuto, consiglio e favore ai Ranfi e ai loro seguaci banditi dal comune di Trieste o manderà lettere agli stessi Ranfi e ai loro seguaci o riceverà dagli stessi qualche lettera che non presenterà al dominio oppure al comune di Trieste, che perda tutti i suoi beni e la libertà e se il tale o il talaltro contraffacente non si potrà catturare, sia bandito in perpetuo dalla città di Trieste e tutti i suoi beni pervengano al comune.

Chi del Ranfo sia maschio che femmina e gli eredi dagli stessi discendenti e i loro seguaci ed i loro eredi, siano banditi in perpetuo dalla città di Trieste, e se quelli che sono stati banditi o altri di essi in qualsiasi momento dovessero cadere nella forza del comune, che il dominio di Trieste presente in quel tempo sia tenuto a tagliare la testa a quello o a quelli che avrà potuto catturare in modo che questa sia separata dal busto e che muoiano, e la donna che sia bruciata. E se qualcuno ucciderà uno dei Ranfi abbia dal cameraro del comune di Trieste 400 lire di piccoli veneti e se presenterà qualcuno di questi vivo al comune di Trieste e tra i seguaci loro, abbia 200 lire di piccoli dal comune di Trieste, e se qualcuno dei banditi dal comune di Trieste per qualsiasi bando eccetto che per omicidio, tanto tra i seguaci dei Ranfi quanto altri banditi, ucciderà qualcuno dei Ranfi, o da questi discendente che possa liberamente venire a Trieste e stare non ostante quel bando e sia libero e assolto dal detto bando e ciò sia compreso specialmente per i Ranfi maschi. E che Ranfa e Clara, sorella e figlia del fu Marco Ranfo sia radiata e bandita dal comune di Trieste e che Agnese loro sorella moglie di Almerico Galina non possa mai venire a Trieste e che per altro tutte le donne che seguissero o avessero seguito i loro mariti, ossia gli stessi Ranfi e i seguaci dei Ranfi, siano bandite dal comune e non possano venire a Trieste e i beni loro tutti pervengano al comune. E qualsiasi Podestà nel tempo del suo regime faccia leggere questa disposizione due volte nell’Arengo pubblico sotto pena se non lo facesse di cento lire di piccoli per ognuno di quei podestà che non lo facessero”

 

La casa di Marco Ranfo era in Cavana.

Trieste nel trecento (clicca sulla figura per espandere)

Fu distrutta con successivo spargimento di sale e con la riserva di non poter più edificare in quel luogo. Nel 1365 la confraternita di San Sebastiano fabbricò in quel sito la propria chiesetta dedicata pare prima San Paolo e successivamente a San Sebastiano. Lasciata cadere in abbandono, attorno alla metà del secolo seguente venne riedificata sullo stesso sito per volere dell’allora vescovo di Trieste Enea Silvio Piccolomini ma poco tempo dopo fu abbattuta, probabilmente perché, adibita a ricovero di malati, era rimasta infetta.

 

 

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Scritto da:

Andrea Acanfora


 

 

 

 

 

 

 

 

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