L’impatto dei cambiamenti climatici in regione: le foreste

 

 

 

Secondo l’INFC (Inventario Nazionale delle Foreste e dei serbatoi nazionali di Carbonio), la superficie forestale nazionale è pari a quasi 10 milioni e mezzo di ettari e occupa circa il 35% del territorio nazionale, distribuita soprattutto in Alto Adige, Trentino, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Toscana, Umbria, Abruzzo, Calabria e Sardegna.

Questa enorme superficie contribuisce ad assorbire circa 35 milioni di tonnellate di CO2 l’anno. Oltre al loro importante contributo alla mitigazione delle emissioni di anidride carbonica e alla funzione produttiva, le foreste svolgono un ruolo insostituibile anche in ambiti sensibili come la protezione del suolo, la mitigazione del dissesto idrogeologico, la regolazione del ciclo dell’acqua e la conservazione del paesaggio e della biodiversità.

I cambiamenti climatici provocano delle alterazioni significative al patrimonio forestale, compromettendo anche la funzionalità dei boschi e i servizi ecosistemici che essi offrono.

Le foreste subiscono infatti sia gli effetti diretti delle variazioni climatiche (aumento delle temperature, della siccità estiva, degli eventi estremi) che quelli indiretti connessi ad altri processi potenzialmente modulati dai cambiamenti climatici, come la competizione interspecifica, i cambiamenti di uso del suolo, gli incendi, le deposizioni azotate. IL cambiamento climatico influisce nei tassi di crescita e nella produttività forestale cambiando la composizione boschiva portando ad una perdita locale di biodiversità. L’aumento del rischio di incendi e dei danni provocati da insetti e patogeni, come pure l’alterazione del ciclo dell’acqua e del carbonio, portano poi all’indebolimento delle piante e determinano perciò perdite nella superficie forestale.

Gli incendi boschivi rappresentano inoltre una notevole fonte di CO2 e di gas a effetto serra. Le emissioni da incendi boschivi in Italia nfluenzano non solo la qualità dell’aria e la salute umana, ma anche il ciclo del carbonio a scala globale.

Proiezioni future indicano un aumento di tali eventi devastanti che, con la riduzione della piovosità estiva e l’aumento della mortalità boschiva, diventeranno sempre più frequenti ed estesi.

In generale gli impatti dei cambiamenti climatici sulle foreste sono e saranno più rilevanti nelle aree mediterranee e negli ambienti d’alta quota, contesti ambientali entrambi presenti nel territorio del Friuli Venezia Giulia.

 

 

In regione la superficie boschiva occupa 300.000 ettari, di cui circa il 93% è situato in montagna e il 7% in pianura, ed è costituita da una straordinaria varietà di tipologie forestali che si susseguono dalla fascia costiera e quella alpina: dalle formazioni a carattere illirico–mediterraneo della costiera triestina caratterizzate da carpino nero e leccio ai residui dei boschi planiziali a carpino bianco e farnia nella bassa pianura friulana; dalle diverse formazioni a carpino nero, orniello e roverella che ricoprono le pendici prealpine esposte a sud e gran parte del Carso, ai rovereti, castagneti, aceri-tiglieti e aceri-frassineti che, a seconda delle situazioni, si ritrovano nelle aree collinari e prealpine; dalle pinete a pino nero e silvestre, alle faggete, ai boschi di abete rosso e abete bianco che, con tutta una serie di tipologie intermedie caratterizzate dalla prevalenza o copresenza delle diverse specie, coprono gran parte dell’area montana, per giungere a formazioni meno diffuse e legate a condizioni peculiari come i lariceti. Sotto il profilo economico, i boschi della regione rappresentano un patrimonio di quasi 45 milioni di metri cubi di legname, con una crescita annua di circa 1 milione di metri cubi, che dà lavoro a 110 imprese forestali (dati 2012, fonte Regione autonoma Friuli Venezia Giulia).

È quindi ragionevole immaginare che gli impatti dei cambiamenti climatici sul patrimonio forestale regionale saranno diversificati a seconda dei diversi contesti geografici e ambientali e delle diverse tipologie di boschi, ma andranno comunque a toccare aree di interesse che coinvolgono diversi settori: dalla conservazione della natura al paesaggio, dalla filiera della lavorazione del legno al turismo, dalla salute alla protezione del suolo e alla prevenzione del dissesto idrogeologico.

Un problema già molto rilevante in regione, che potrà aggravarsi con i cambiamenti climatici, sono gli incendi boschivi: alla pericolosità già nota si somma ora l’aggravarsi degli incendi estivi provocati da fulmini.

 

 

 

Carta della pericolosità degli incendi boschivi in FVG

 

 

I cambiamenti climatici in corso nell’ultimo ventennio determinano effetti più marcati a livello di arco alpino rispetto alle altre zone dell’Italia. Nella regione Friuli Venezia Giulia il fenomeno degli incendi è sicuramente quello che maggiormente ha risentito delle variazioni di temperatura e regime pluviometrico che hanno interessato diverse estati dell’ultimo periodo.

L’Anticiclone africano, figura barica quasi sconosciuta nella nostra Regione fino ad una ventina di anni fa, è diventata ora la situazione meteorologica di riferimento per lunghi periodi dell’anno ed in particolare durante le stagioni estive. Gli effetti sono lunghi periodi con elevate temperature e assenza di precipitazione che rendono particolarmente suscettibile agli incendi vaste aree della montagna friulana caratterizzata da rocce calcaree, morfologie molto accidentate su cui si insediano formazioni forestali caratterizzate prevalentemente da pino nero e pino silvestre con alternanza a latifoglie termofile quali carpino nero ed orniello.

La naturale conclusione di questi potenti anticicloni di matrice africana avviene di frequente per inserimento di sacche di aria più fredda provenienti dalle latitudini più a nord, chiamate volgarmente “gocce fredde”, che determinano nella montagna friulana repentini cambi di temperatura, temporali con forte attività elettrica e piogge anche di rilievo ma distribuite non uniformemente sul territorio. Lo scambio di masse d’aria lungo i meridiani determina un’intensa attività elettrica a livello atmosferico che provoca nella regione Friuli Venezia Giulia la caduta al suolo di una grande quantità di fulmini, molto superiore rispetto alle altre zone montane dell’arco alpino.

I fulmini sono diventati negli ultimi anni la principale causa dello scoppio degli incendi nella zona montana; incendi che il più delle volte scoppiano in zone di cresta o a mezzo versante su pendii quasi inaccessibili. Gli incendi estivi provocati da fulmini sono un fenomeno conosciuto anche in passato ma negli ultimi anni hanno cambiato radicalmente la loro struttura trasformandosi da incendi sotterranei o superficiali, ma di limitata estensione, a fenomeni talvolta devastanti in grado di generare fiamme alte decine di metri, di espandersi con propagazione di tipo “chioma attivo” e fenomeni di “spotting” di proporzioni sconosciute. Preoccupante è la ripetitività con cui si sviluppano incendi provocati da fulmine soprattutto negli ultimi anni. A partire dal 1998 il fenomeno è diventato quasi una costante che accompagna le stagioni estive. Le annate 2003, 2006 e 2013 sono state veramente disastrose.

Dopo la terribile estate del 2003, che ha provocato oltre 20 incendi da fulmine in un periodo molto concentrato e con l’episodio più grave che ha interessato una superficie di oltre 250 ettari, anche nel 2006 si sono registrati oltre venti incendi con tre eventi che hanno superato i trenta ettari per arrivare al 2013 con l’incendio del Monte Jovet che ha superato 945 ettari ed è durato 50 giorni.

Caratteristica di questo tipo di incendi è che se non vengono prontamente individuati e posti sotto controllo poi con le tecniche attuali diventano di fatto impossibili da spegnere. Dopo un periodo prolungato con assenza di precipitazioni significative, temperature massime che durante il giorno possono superare anche i 35 gradi, bassa umidità atmosferica rendono il combustibile vegetale facilmente infiammabile.

Va inoltre sottolineato che in queste situazioni quello che brucia all’interno dei boschi non è solo la parte vegetale ma anche l’intero suolo fino alla roccia madre con danni che non interessano quindi solo le piante ma l’intero ecosistema.

 

 

 

 

 

 

 

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