L'area misteriosa delle foci del Timavo fa da sfondo a episodi in cui si muovono eroi e re alla ricerca di beni perduti, della patria o di nuove terre.
Nel tempo senza tempo del mito, l'area misteriosa delle foci del Timavo fa da sfondo a episodi in cui si muovono eroi e re alla ricerca di beni perduti, della patria o di nuove terre.
Nel tempo senza tempo del mito, l'area misteriosa delle foci del Timavo, creata dalle fredde correnti di un fiume comparso dal nulla, su cui si aprivano grotte credute porte degli Inferi, in cui da acque che ridonavano il benessere salivano fumi e vapori di odore pungente, entra con tutto il suo fascino, a fare da sfondo a episodi in cui si muovono eroi e re alla ricerca di beni perduti, della patria o di nuove terre. Dice il poeta Marziale (40-104 d.C.) in due dei suoi Epigrammi (IV, 25 e VIII, 28):
" ... e tu Aquileia, lieta del Timavo
sacro ai figli di Leda
alle cui sette bocche bevve il loro cavallo ... "
e
"o la tua lana ha contato le molte bocche dell’edeo Timavo,
dove bevve Ciliaro, prima di salire alle stelle?"
Marziale menziona i Dioscuri, figli di Leda, regina di Sparta, e di Tindaro, re di Sparta.
Leda aveva concepito Castore e Clitemnestra, mortali, e da Zeus-Giove, che aveva preso le sembianze di un cigno, aveva generato Polluce ed Elena, nati da un uovo, simbolo di vita eterna, è ricca di significati: nella mitologia greca e romana essi, signori del mare e dei venti, erano i protettori dei naviganti.
La citazione dei loro cavalli nel primo epigramma e di CilIaro, il cavallo di Polluce, nel secondo, e l'insistenza sul fatto che essi bevvero le acque del Timavo, riconduce a un episodio mitologico assai importante per i suoi significati intrinseci, quello della spedizione degli Argonauti, che qui ebbe una tappa.
Secondo il racconto, gli Argonauti sono gli eroi che, sotto la guida di Giasone, principe di loIco in Tessaglia, organizzarono il primo viaggio che abbia osato violare le acque del mare con l'invenzione della nave, chiamata Argo dal nome del costruttore, viaggio teso a riportare in patria il mitico vello d'oro, la pelle scuoiata dell'ariete capace di volare, custodito in un bosco della Colchide, nel Caucaso.
L'impresa degli Argonauti è una delle più affascinanti storie del mito greco. Il tema del viaggio sulla nave Argo e dell'avventura in tanti luoghi misteriosi si intreccia con quello della storia d'amore tra Giasone e Medea: una storia di dei ed eroi, ma anche di una fanciulla dotata di straordinari poteri magici che agiscono su uno sfondo remoto e selvaggio, tra insidie mortali, mostri e prodigi.
Giasone arrivò nella Colchide insieme agli Argonauti alla ricerca del Vello d'Oro, in quanto era in grado di guarire le ferite ed era custodito da un feroce e terribile drago. Medea, principessa del luogo, si innamorò perdutamente di Giasone e pur di aiutarlo a raggiungere il suo scopo rapì il fratello Apsirto e si imbarcò sulla nave Argo insieme a Giasone.
Giasone riuscì a prendere il vello e a riportarlo a laIco con un avventuroso viaggio di ritorno, in cui tutti gli Argonauti, tra cui Ercole e i fratelli Castore e Polluce, diedero generoso dispiego di forze e di tenacia. Dopo aver seguito il corso del fiume detto Istro, identificato con il Danubio, dal cui nome deriva la denominazione di Istria, terra degli Istri, ed essere giunti al punto in cui il fiume si divideva in due bracci, gli Argonauti avrebbero scelto di percorrere il ramo che portava al mare Cronio (ovvero all'Adriatico), da più parti identificato con il Timavo, sul cui corso misterioso si favoleggiava (Argon., IV).
Tappa e punto di sosta fu il Lacus Timavi, area tranquilla in cui fu possibile scendere dalla nave per far abbeverare uomini ed animali.
Medea fuggì ma fu inseguita dai Colchi. Per fermare i suoi inseguitori uccise suo fratello Apsirto e lo gettò sulla strada. I Colchi riconobbero il cadavere del figlio del loro Re e, secondo la loro tradizione, si fermarono per celebrare le esequie. Il rito funebre, durando tre giorni, permise alla Maga Medea di scappare con Giasone. Il luogo ove Medea uccise suo fratello era proprio quel monte che ancora oggi si chiama monte Medea.
Oltre le rive del fiume Judrio si trova il monte di Medea. Questo luogo fu testimone dell’omicidio di Medea raccontato dal poeta Joseffo Sporeno. Il poeta racconta inoltre che il monte divenne rosso a testimoniare la crudeltà per la morte del fratello innocente.
Comunque sia, sopra questo monte si sentono muggiti, strepitii e ci sono strane visioni a testimonianza che esiste qualcosa di magico e diabolico. A conferma di questa leggenda, si racconta che nel 1600, sul monte Medea in corrispondenza del Tempio dedicato al martire S.Lorenzo, c’era un luogo inaccessibile dove c’erano attaccati alla roccia dei grossi anelli di ferro che facevano pensare che in tempi antichissimi fosse un luogo di approdo.
Poco lontano da questo luogo c’era un antro che era impossibile attraversare a causa del forte vento che investiva questo luogo misterioso. Si racconta che al suo interno fu posto un cane che fu poi trovato nei luoghi aspri e montuosi della Carnia. Secondo Ercole Partenopeo era una testimonianza che in passato l’antro fosse abitato da gente nobile chiamata Carnia il cui nome derivava dalla dea Carnia, ossia Carno figlio di Ercole. (dal libro di Ercole Partenopeo)
Il fatto che Polluce fosse fratello dì Elena, sposa di Menelao re di Sparta, funge da tramite per passare dagli Argonauti alla spedizione contro la città di Troia, epopea notissima cantata nell'Iliade omerica, che dati archeologici pongono storicamente nel XII secolo a.C.
Alla caduta della città, vinti e vincitori, com'è noto, conobbero vicende alterne, in cui i primi sono spasmodicamente tesi alla ricerca di altre sedi dove ricominciare a vivere.
Un principe troiano, Antenore, e un re greco, Diomede, hanno nel mito vicende diverse e allo stesso tempo simili, che nella zona del Timavo si sfiorano. Antenore, cugino e consigliere di re Priamo, partì per seguire un nuovo destino guidando un gruppo di suoi e gli Èneti, alleati dei Troiani e antenati dei Veneti. Come racconta lo storico Tito Livio (59-17 a.C.), nato a Padova, egli giunse "in fondo al golfo del Mar Adriatico" (I, I, 2). Il poeta Virgilio (70-19 a.C.) nell'Eneide è più prodigo di particolari: la dea Venere, preoccupata per la sorte del figlio Enea, ancora girovago sul mare, perora la sua causa con il padre Giove, dicendo:
"Antenore è potuto, portatosi in salvo in mezzo agli Achei, giungere fino in fondo al golfo illirico e al più profondo del regno dei Liburni senza rischi e doppiare la fonte del Timavo ... " (I, 242-249)
Tale mito, sconosciuto ad Omero, copre probabilmente collegamenti mercantili tra l'Asia Minore e le genti venete; altra ipotesi è quella che vede lo sbarco di Antenore presso il Timavo come un'emulazione delle vicende di Enea. Si tratterebbe allora di una presenza più tarda, nata forse agli inizi del IV secolo a.C., momento della calata in Italia dei Galli di Brenna, per creare un parallelismo tra le origini dei Veneti, alleati e amici di Roma contro i Galli, e quelle dei Latini, poi Romani, guidati così da due principi troiani, Antenore ed Enea, dislocati a controllare rispettivamente i versanti adriatici e quelli tirrenici della penisola italiana.
Diomede, signore di Argo, è tra i primi re greci a tornare in patria lasciata Troia, senza però trovare pace, macchiata la casa dall'adulterio della moglie. Abbandonate le sue terre e ripreso il mare, egli si dirige verso est, entrando in Adriatico e toccando la penisola garganica: diventa colui che insegna alle popolazioni l'arte della navigazione e l'allevamento dei cavalli, colui che istituisce nuove città e trasmette la civiltà, colui che viene onorato con il sacrificio di cavalli bianchi. Risalendo le correnti, giunge al delta del Po; meta ultima del suo andare è però, come racconta Strabone,
"l'insenatura più profonda dell'Adriatico ... dove il Timavo che con sette bocche si versa direttamente in mare formando un fiume largo e profondo ... ha un porto e un amenissimo bosco" (V, l, 8-9 ).
L'eroe diventa nel Lacus Timavi oggetto di costante venerazione in un santuario detto "il Timavo": in questi luoghi, confine tra il mondo civile dei Veneti a ovest e quello ancora selvaggio degli Istri a est, gli viene dedicata un'area sacra, simbolo del contatto che si instaura tra le persone in movimento, commercianti e naviganti, e le popolazioni dei luoghi visitati, che così diventano simili, ma non uguali.
Nell'area del Timavo, punto di quegli incontri pacifici di cui Diomede è la personificazione, gli opposti si possono ricomporre in quello che era un santuario di frontiera, aperto cioè a tutti, posto in un bosco sacro (lucus), immagine della natura che l'uomo può disciplinare con il processo di civilizzazione, abitato da lupi e cervi che vivono assieme, immagine della convivenza.
Non a caso il luogo era fornito di un porto, luogo di incontri reciproci e sede di scambi commerciali. Nel III secolo a.C., quando arrivano i Romani, l'area delle bocche e delle foci del Timavo è dominato da un'area sacra senza edifici, com'era nella tradizione veneta, e da un luogo di mercato che, grazie alla presenza divina, riceveva garanzia di equità. Era un luogo collegato all’entroterra carsico e al mare, in rapporto con l'insediamento, anch'esso sede emporiale, che sorgeva nel sito che sarebbe poi stato occupato da Aquileia.
Le prove materiali, benché indirette, della presenza di un punto di attracco, stoccaggio e smercio alle bocche del Timavo si sono avute attraverso scoperte subacquee effettuate nel Terzo ramo del fiume. Qui, infatti, a circa un chilometro dalla risorgiva, alla profondità di sette metri e verso la sponda sinistra, è stato ritrovato un deposito di ceramica protostorica e romana, che lascerebbe pensare a zone di carico o a punti di stoccaggio sprofondati. Il vasellame protostorico si colloca cronologicamente tra l'VIII e il VI secolo a.C.: alcune forme riconducono a produzioni venete, altre invece hanno riscontri nei materiali ritrovati in Istria, nella necropoli di Nesazio, segni tangibili della duplicità del Lacus come zona sia di contatto, sia di confine tra Veneti e Istri, come detto, e in alcuni dei castellieri del Carso triestino.
Con il termine di castellieri si indicano gli insediamenti fortificati che nell'arco che va dal XIV al IV secolo a.c. sfruttano la sommità dei rilievi carsici e punti strategici della pianura friulana: le strutture che gravitavano sul Timavo sorgevano alla Rocca, alla Gradiscata, alle Forcate, al Golas, alla Moschenizza (questi in diretto collegamento visivo tra loro), a Castellazzo di Doberdò, a FIondar e sul monte Ermada.
Sulle cause e concause della loro fine si è molto discusso: il loro decadere sarebbe stato determinato da ragioni politiche (la calata di tribù galliche, con occupazione stabile di vaste aree dell'Italia settentrionale) e insieme economiche. Le realtà materiali databili al IV secolo a.C. descrivono da una parte una situazione di incertezza e di pericolo, dall'altra segni inequivocabili dello spostamento degli assi commerciali dalle zone interne al mare. Un segno di ciò è la nascita dello scalo di Duino: il porto sul Terzo ramo del Timavo continua dunque la sua attività in scenari mutati, non più rivolti verso l'entroterra, ma imperniati sul mare, che proseguiranno senza censure in età romana. Sull'asse disegnato dai mercati del Lacus Timavi e di "Aquileia prima di Aquileia" transitavano merci pregiate, provenienti da Nord e dirette al cuore del Mediterraneo: una delle più importanti è l'ambra, preziosa resina fossile, che con la cosiddetta "via orientale" disegnatasi nel VI secolo a.C. lascia il mar Baltico seguendo il letto della Sava e della Drava; essa scende per il passo di Tarvisio e si affianca al corso dell'Isonzo, che all'epoca sboccava nella laguna in cui sfociava il Timavo, alimentando commerci con le lagune venete, dove sorgono Adria e Spina, poli commerciali che il mito dice essere stati fondate da Diomede. Ed è proprio l'ambra, sostanza della luce nata dalle lacrime delle ninfe Eliadi per la morte del fratello Fetonte, sbalzato dal cocchio del padre Sole, che al Timavo riunisce e compendia storie mitiche, geografia reale e traffici commerciali.
Ercole Partenopeo – Descrizione della nobilissima Patria del Friuli – 1604
Liruti GianGiuseppe Notizie delle Cose del Friuli secondo i tempi Vol. 1.1777.
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