Nacque verso la fine del 1165 (tra l'ottobre e il dicembre) a Nimega in Gheldria (od. Paesi Bassi), secondogenito dell'imperatore Federico I Barbarossa e di Beatrice di Borgogna. Il fratello maggiore Federico, duca di Svevia, morto nel 1169, fu escluso dalla successione a causa della debole costituzione fisica. Nel giugno del 1169 a Bamberga il Barbarossa fece eleggere re il figlio minore, che nell'agosto successivo fu incoronato dall'arcivescovo di Colonia. Enrico compare nei diplomi dei padre come testimone a partire dal 1173, ma per il resto non si sa quasi nulla della sua fanciullezza.
Dal 1174 al 1178 il giovane Enrico partecipò alla quinta spedizione del Padre in Italia, nel corso della quale l'undicenne re assistette alla gravissima disfatta dell'esercito imperiale presso Legnano (1176), che impose al Barbarossa un ripensamento radicale della sua politica. Ben presto si arrivò ad un nuovo modus vivendi con le città lombarde, con il papa e con i suoi alleati siciliani (1176-77), ma molti problemi riguardo ai loro rapporti reciproci rimanevano ancora aperti. Negli accordi fu incluso esplicitamente anche Enrico, il quale si dovette impegnare a rispettarli.
Dopo il ritorno in Germania troviamo Enrico VI solamente al seguito del padre e insieme con lui, nel 1183 a Costanza, rinnovò la pace con la Lega lombarda. Nel 1184, durante la solenne Dieta celebrata a Magonza il giorno di Pentecoste, Enrico VI fu armato cavaliere, insieme con il fratello minore. Federico I, ormai all'apice del suo regno e circondato dal rispetto di tutta la Cristianità, ricevette molte ambascerie a Magonza ed è probabile che in questa occasione (se non già prima) fosse concordato il fidanzamento di Enrico VI con Costanza d'Altavilla, figlia del defunto re Ruggero II di Sicilia e zia del re allora regnante Guglielmo II (è questa l'affermazione degli Annales Stadenses, p. 350), reso pubblico il 29 ott. 1184. Le nozze furono celebrate a Milano, nella chiesa di S. Ambrogio, il 27 genn. 1186 - cioè un lunedi non giorno festivo - ma significativamente in una città che fino a poco tempo prima era stata la protagonista della politica antimperiale in Italia. Il papa, dimostrativamente, non presenziò alla cerimonia.
Nell'estate del 1186 il Barbarossa, dopo il trattato di pace con Cremona, affidò al figlio l'amministrazione del Regno d'Italia, in modo da potersi dedicare agli urgenti problemi tedeschi. Non si trattava tuttavia della prima prova per il successore al trono. Già nel luglio 1184, immediatamente dopo la splendida festa di corte tenutasi a Magonza, Enrico VI aveva intrapreso una spedizione contro i Polacchi che in poco tempo si era conclusa con un trattato di pace. Verso la fine dell'autunno 1184 era intervenuto nello scisma di Treviri, facendo distruggere a Treviri e a Coblenza le case dei seguaci di Folmar, il candidato alla cattedra arcivescovile poco gradito all'imperatore. Questa azione violenta, che fu deplorata davanti al papa dallo stesso Federico I, aveva contribuito alla rottura delle trattative di Verona. La spedizione militare, concordata nel 1184 per l'autunno del 1185 da Enrico VI con il conte delle Fiandre contro il re di Francia, era stata annullata poco prima dall'imperatore, per calcolo politico.
Con la alleata Lega lombarda alle spalle Enrico VI riusci in breve tempo ad affermare efficacemente l'autorità e la sovranità imperiale nell'Italia centrosettentrionale. Le forze fedeli all'Impero furono rinvigorite, ogni opposizione fu soffocata. A funzionari regi appartenenti al nuovo ceto dei ministeriali dell'Impero fu affidato il compito di mantenere l'ordine e di riscuotere le imposte. Quando Urbano III, da poco eletto pontefice, riconobbe Folmar nel 1186 come arcivescovo di Treviri, Federico I ordinò al figlio di occupare militarmente le terre della Chiesa. Anche questo provvedimento era a lungo termine, significava più della semplice conquista di un pegno per rendere docile il papa. I provvedimenti di Enrico VI indussero infatti la Curia a riprendere nuovamente le trattative con la corte imperiale, dopo che le speranze poste nell'opposizione tedesca guidata dall'arcivescovo di Colonia si erano dissolte. I successori di Urbano III, Gregorio VIII e Clemente III continuarono le trattative, anche in considerazione del fatto che la caduta di Gerusalemme (1187) costringeva a nuove priorità. Nel 1189 si giunse alla stipula di un trattato, il cui testo non è pervenuto, dopo che Clemente III già nel 1188 aveva acconsentito all'incoronazione imperiale di Enrico VI e della sua sposa. In risposta Enrico VI ordinò la restituzione dei territori della Chiesa occupati, anche se "con la riserva dei diritti imperiali", fatto che in fin dei conti lasciò in sospeso l'intera vicenda.
Federico I aveva preso la croce nella primavera del 1188, nel corso di una Dieta celebrata a Magonza. Per la durata della crociata la reggenza dell'Impero fu affidata ad Enrico VI. Quest'ultimo aveva appena condotto una guerra contro Enrico il Leone, di ritorno dal suo esilio inglese, allorché giunse in Germania la notizia della morte di re Guglielmo II di Sicilia (18 nov. 1189). L'avvenimento creò prospettive del tutto nuove, poiché dal matrimonio di Guglielmo con Giovanna, figlia del re d'Inghilterra, non erano nati figli. Doveva essere considerata legittima erede del Regno la moglie di Enrico, Costanza, la cui eventuale successione era stata confermata dal giuramento, sollecitato da Guglielmo II, dei baroni siciliani nell'estate del 1185. Tuttavia il partito antisvevo, guidato dal vicecancelliere Matteo di Aiello, trasse vantaggio dalla paura suscitata dal furor teutonicus ed ottenne l'elevazione a re del conte Tancredi di Lecce (18 genn. 1190), un nipote illegittimo di re Ruggero II. Enrico VI accettò questa sfida: nel luglio del 1190 raggiunse un'intesa con Enrico il Leone e fece preparativi per una spedizione in Italia che fu rimandata all'inizio dell'anno seguente, a causa della morte del padre (10 giugno 1190). Sorsero nuove difficoltà con il successore di Clemente III, Celestino III, il quale non si sentiva vincolato dagli accordi presi dal suo predecessore. Il papa rinviò l'incoronazione imperiale, ritardando la propria consacrazione vescovile, e si rese disponibile solo il lunedi di Pasqua. Enrico VI si era garantito l'appoggio dei Romani grazie all'abbandono di Tuscolo, fedele all'Impero, che fu subito rasa al suolo. Il differimento dell'incoronazione concesse però a Tancredi il tempo sufficiente per organizzare la difesa. La campagna di Enrico VI si arrestò davanti a Napoli che resistette al tentativo imperiale. La flotta pisana, il cui aiuto Enrico si era assicurato mediante la concessione di un ampio privilegio al Comune toscano, fu neutralizzata da Margarito, ammiraglio di Tancredi. La presa in ostaggio di Costanza ad opera dei seguaci di Tancredi a Salerno e lo scoppio di un'epidemia nella truppa costrinsero infine l'imperatore a levare l'assedio e porre fine all'intera campagna e a ritornare in Germania. Lo aveva preceduto il figlio di Enrico il Leone, che Enrico VI aveva portato con sé come ostaggio a garanzia della buona condotta del padre, e che allora aveva lasciato segretamente il campo imperiale. In quel momento anche Celestino III assunse un atteggiamento più chiaro, riconoscendo Tancredi con il quale nel 1192 concluse a Gravina un concordato che sopprimeva i privilegi del re di Sicilia in materia ecclesiastica all'interno dei Regno. Inoltre apparve già chiaramente che il conflitto non si sarebbe limitato a uno scontro tra Enrico VI e Tancredi, ma avrebbe coinvolto tutto l'insieme delle potenze europee. Nel 1190-91 Riccardo Cuor di Leone, sulla strada per la Terrasanta, si fermò a svernare in Sicilia stringendo un patto con Tancredi, poiché quest'ultimo aveva prontamente soddisfatto le enormi richieste finanziarie che il re d'Inghilterra aveva presentato in favore della sorella, vedova di Guglielmo II. Dall'altra parte re Filippo Augusto di Francia, con il quale Riccardo era entrato in attrito, rinnovò l'alleanza svevo-capetingia. In Germania si era diffusa la voce della morte dell'imperatore. Da più parti si levarono gli avversari degli Svevi e crebbe l'opposizione contro la loro politica volta a costituire un regno ereditario, del quale l'eredità di Guelfo VI (morto nel 1191), che Federico I aveva potuto assicurare alla propria casa, costituiva un'importante componente.
Alimentata da vecchi conflitti territoriali si stava di nuovo formando intorno all'arcivescovo di Colonia l'opposizione antisveva nel Basso Reno, quando Enrico VI respinse la doppia elezione vescovile, avvenuta a Liegi (uno degli eletti era Alberto di Rethel, zio dell'imperatrice Costanza), conferendo invece l'episcopato al proprio candidato, Lotario di Hochstaden. Con l'aiuto di questo e della sua famiglia egli sperava di controbilanciare efficacemente l'azione di rafforzamento tentata dall'arcivescovo di Colonia. Con questo provvedimento Enrico VI si inimicò le forze più influenti della regione, che da parte loro erano coinvolte sia nel conflitto anglo-francese sia in quello svevo-guelfo. Si prospettò già allora la situazione che si sarebbe verificata subito dopo la morte di Enrico VI con l'elezione di due re, uno svevo e uno guelfò. Tantopiù che anche il papa aveva assunto una posizione chiara: egli prese le parti dell'opposizione e confermò il candidato scelto dalla maggioranza del capitolo del duomo, un fratello del duca di Brabante, che immediatamente fu consacrato vescovo a Reims per iniziativa dell'arcivescovo di Colonia. A novembre, quando il vescovo fu assassinato da alcuni cavalieri tedeschi, tutti erano convinti della responsabilità di Enrico VI, e ritennero poi di trovarne conferma nel fatto che gli assassini seguirono più tardi l'imperatore in Italia, dove non solo non vennero puniti ma furono addirittura investiti di contee. Lo sdegno nei confronti dell'imperatore raggiunse l'apice, e di fronte ad una tale situazione neanche la liberazione di Costanza e il suo ritorno in Germania poterono cambiare gli umori. Le truppe tedesche avevano liberato l'imperatrice sulla strada per Roma, dove si stava recando accompagnata da legati pontifici, dopo essere stata rilasciata da Tancredi grazie alle pressioni del papa.
Solo un caso fortunato salvò l'imperatore dalla difficile situazione: il duca Leopoldo d'Austria gli consegnò nel febbraio 1193 Riccardo Cuor di Leone, che egli per vendetta privata aveva catturato vicino Vienna, mentre il re inglese ritornava dalla crociata (21 dic. 1192). L'imperatore non si fece scrupolo di approfittare di questo ostaggio piovutogli dal cielo, minacciò di consegnare Riccardo al re di Francia, con cui trattava contemporaneamente, e fissò un enorme riscatto di 100.000 marchi d'argento. Inoltre Riccardo doveva riconoscere l'imperatore suo signore feudale contro il pagamento di un censo annuo di 5.000 libbre d'argento (Enrico VI rinunciò, invece, a richiedere la partecipazione personale del re d'Inghilterra alla spedizione di Sicilia, come in un primo tempo aveva prospettato). Solo al principio di febbraio del 1194 Riccardo Cuor di Leone fu rilasciato. L'opposizione antimperiale, privata dell'appoggio inglese e paralizzata per l'intenzionale protrarsi della prigionia del re, si era nel frattempo dispersa. Quanto al contrasto con Enrico il Leone un accordo in marzo pose termine al conflitto che si concluse in modo definitivo l'anno seguente con la morte del duca avvenuta a Brunswick (6 ag. 1195).
Alla metà di maggio del 1194 Enrico VI mosse verso Sud. L'armata e la flotta pisano-genovese che operava contemporaneamente non incontrarono una resistenza degna di nota: già il 20 novembre Enrico VI entrò da trionfatore a Palermo, dove a Natale fu incoronato re di Sicilia. Il giorno dopo l'imperatrice diede alla luce a lesi (presso Ancona), dove si era fermata durante il viaggio verso Sud, il tanto atteso erede, chiamato inizialmente Costantino, ma poi battezzato con i nomi dei suoi nonni, Federico Ruggero. Enrico VI sembrava aver realizzato tutti i suoi desideri, ma proprio nel momento in cui sembrava trionfare, sorsero le difficoltà. Come si sarebbe potuto governare questo paese lontano e diverso con le insufficienti possibilità offerte dall'epoca? Questioni territoriali controverse nell'Italia centrale tra papa e imperatore necessitavano di una pronta soluzione, perché la parte sveva doveva assolutamente rendere sicuro il passaggio verso l'Italia meridionale. Ultima, ma non meno importante, era la questione dei futuri rapporti tra papa e imperatore, poiché il papa era sempre signore feudale del re di Sicilia.
Il comportamento che assunse l'imperatore si sarebbe potuto definire "machiavellico": dopo aver investito a dicembre il figlio di Tancredi, quasi a volerlo indennizzare, della contea di Lecce e del principato di Taranto, Enrico VI prese a pretesto un complotto in realtà inesistente per deportare in Germania la famiglia reale e i suoi più stretti consiglieri. Nello stesso tempo il meraviglioso tesoro reale fu confiscato e portato anch'esso in Germania. Forse nello stesso periodo fu imposto il divieto di appellarsi alla Curia romana. Inoltre Enrico VI fece controllare i registri delle tasse, benché si fosse subito manifestata per i Tedeschi l'impossibilità di amministrare le finanze senza l'aiuto degli esperti siciliani. Cosi Eugenio, che più tardi divenne sotto Costanza gran camerario della Terra di Lavoro e di Puglia, fu presto richiamato in Sicilia dalla prigionia tedesca, per assistere i funzionari imperiali, in particolare il vescovo Corrado di Hildesheim.
La Dieta convocata a Bari nella Pasqua del 1195 prese decisioni importanti per il futuro del paese. Anche Costanza si trovò al fianco del suo sposo, dopo che probabilmente per ordine dell'imperatore aveva dovuto affidare il figlio alla moglie del duca tedesco di Spoleto, Corrado di Urslingen, presso la quale Federico avrebbe dovuto passare i suoi primi tre anni di vita. A Bari si svolse anche con tutta probabilità l'incoronazione di Costanza a regina di Sicilia; essa fu incaricata poi del governo del Regno durante le assenze di Enrico VI. Costanza cominciò a contare i suoi anni di regno da una data non meglio determinabile del mese di maggio (Pentecoste?), che probabilmente coincise con il suo arrivo nella capitale Palermo. Il suo comportamento orgoglioso nei confronti del marito appare anche nella sua lettera a Celestino III (Constantiae … diplomata, pp. 10-14, n. 3). Secondo lei non esisteva l'"antiquum ius imperii", sottolineato da Enrico VI, sul Regno. Essa si richiamava piuttosto ai diritti di successione che le spettavano dopo la morte del padre ("paterna successio"), il cui diritto di sovranità ("paterni iuris plenitudo") essa reclamava totalmente per sé. La "imperialis adquisitio potentiae" secondo lei rappresentava solo uno strumento per ottenere i diritti dei quali era stata privata per opera del papa e di Tancredi. Anche dopo la morte di Enrico VI essa governò da vera e propria sovrana, non in qualità di reggente per il figlio, che dopo l'incoronazione (17 maggio 1198) fu semplicemente associato al trono. Già dal principio della unio regni ad imperium si mostravano quindi le profonde differenze di opinione dei coniugi riguardo ai titoli di ciascuno di loro. Tuttavia Costanza fu costretta a piegarsi ai reali rapporti di forza.
Eccettuate forse le Puglie, sembra che la sostituzione del personale si fosse limitata ai posti direttivi e di importanza militare, mentre l'amministrazione delle province rimaneva sostanzialmente invariata. Nel 1195-96 il tedesco Eberhart di Lautern, un ministeriale dell'Impero, fu nominato magister castellanus et magister iusticiarius Siciliae e nel contempo stratigotus di Messina. Nel 1195 il ministeriale Dipoldo di Schweinspeunt, signore del castello di Rocca d'Arce che nel 1197 ottenne addirittura il titolo di conte d'Acerra, ricopri la carica di giustiziere della Terra di Lavoro. L'abbazia di Montecassino, fedele all'Impero, ottenne già nel dicembre del 1194 il giustizierato sui beni monastici, un privilegio eccezionale. L'imperatore di solito non interferi nella nomina dei vescovi, e solo in pochi casi è riconoscibile una sua influenza diretta, benché il concordato di Benevento (1156) gli offrisse in quanto re di Sicilia solidi appigli: la richiesta dell'assensus reale era infatti indispensabile per l'eletto. Chiaramente l'imperatore, in quanto straniero, voleva evitare ulteriori contrasti, tanto più che i vescovati, di solito meno importanti di quelli tedeschi, erano spesso controllati dalla nobiltà locale. Persone sgradite vennero naturalmente eliminate: è il caso del vescovo Urso di Agrigento che alcune voci del XIII secolo indicano come figlio di Tancredi. Per aver partecipato al complotto del 1197 fu imprigionato Ruggero Orbo, vescovo di Catania, che era stato elevato come candidato dell'imperatore. In compenso non era considerato un fattore discriminante l'essere stato seguace di Tancredi; Samaro di Trani e Caro di Morireale restarono indisturbati, come altri ancora, e ottennero addirittura dei privilegi.
La promessa di intraprendere la crociata non agevolò certamente la situazione dell'imperatore. Immediatamente prima della Dieta di Bari egli aveva preso segretamente la croce nel giorno di venerdi santo e la domenica di Pasqua fece predicare pubblicamente la croce. Non si capisce il motivo per cui egli si sarebbe imposto anche questo onere.
La nuova situazione del 1194 offriva possibilità ricche di prospettive per la realizzazione dei sogni di dominio degli Svevi. A Enrico VI è stato attribuito il progetto di estendere la sua signoria su tutta la terra, ma questa asserzione fu poi ridimensionata dall'ipotesi secondo cui l'imperatore avrebbe coerentemente sfruttato solo le possibilità che gli si offrivano (Kirfel), cioè l'imposizione della signoria feudale sull'Inghilterra e poi su Cipro e sull'Armenia, il pagamento dei tributi del califfato almohadico dell'Africa del Nord, il ricatto nei confronti di Bisanzio (rinnovamento delle pretese territoriali normanne, la richiesta di aiuto militare per la crociata, le "tasse alemanne", il matrimonio del 1197 di Filippo di Svevia con la nuora bizantina di Tancredi, rimasta vedova, e nello stesso tempo la conquista del diritto di successione svevo), che in alcuni casi coincise con l'aggressiva politica normanna contro l'Impero bizantino. Sotto questo aspetto la crociata avrebbe rappresentato soltanto un mezzo per rimettere in moto le trattative tra papa ed imperatore. Se si ammette però che la politica di Enrico VI era decisamente indirizzata verso Oriente, questa crociata avrebbe potuto effettivamente documentare la pretesa di dominio degli Svevi sull'intera Cristianità nella tradizione di Federico I, e realizzare nello stesso tempo la profezia, largamente diffusa, secondo la quale l'ultimo imperatore sarebbe entrato a Gerusalemme. Nella persona di Enrico VI convivevano quindi il politico che agiva con durezza e senza scrupoli e il visionario che cercava di condurre l'Impero svevo ad altezze mai prima raggiunte.
Mentre fervevano i preparativi per la crociata, l'imperatore si recò in Sicilia; con il suo arrivo liberò dagli incarichi Costanza che tornò in secondo piano. Enrico VI, nello stile di Ruggero II, promulgò un editto di revoca dei privilegi che sottometteva alla sua grazia tutti i privilegiati del Regno. A dire il vero, l'effetto venne a mancare, poiché mentre l'imperatore alla fine di aprile si recava nella sua tenuta di caccia presso Patti, scoppiò una rivolta, dalla quale egli si salvò a stento, ripiegando su Messina. I ribelli furono sconfitti a Paternò da un'armata radunata in breve tempo da Enrico di Kalden e Marquardo di Annweiler, i superstiti furono circondati e assediati a Castrogiovanni (Enna): verso la fine di maggio la sollevazione contro la signoria straniera era stata repressa. La vendetta di Enrico VI fu spietata: persino i prigionieri che erano stati trasferiti in Germania furono puniti. Nella cerchia imperiale si mormorava di una partecipazione dell'imperatrice e del papa al complotto; entrambe le voci non sono dimostrabili, anche se appare difficile che Costanza non conoscesse l'umore dei suoi sudditi. Seppure Enrico VI ebbe dei sospetti nei confronti della moglie, non manifestò alcuna reazione, visto che ricompensò insieme con lei i cittadini di Caltagirone per la loro fedeltà durante la recente agitazione. Ma all'imperatore restavano ormai pochi mesi di vita. Tornato nella tenuta di caccia a Patti, al principio di agosto cominciò ad avere problemi di salute, il che impose un suo trasferimento a Messina da dove era appena partita la flotta per la crociata. Vi furono degli accenni di ripresa, ma solo temporanei. Enrico VI mori a Messina il 28 settembre 1197, probabilmente di malaria e dissenteria, in presenza della moglie.
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