Pellegrino di Ortenburg - Sponheim

Pellegrino di Ortenburg - Sponheim

Ben poco si conosce delle origini di Pellegrino II, non si esclude tuttavia possa trattarsi di un nipote del patriarca Pellegrino I di Povo Beseno (1131-1161) e forse suo padre fu Enghelberto III d'Istria. La sua carriera ecclesiastica lo portò dapprima a diventare preposito del capitolo cividalese ed in seguito vicedomino e arcidiacono della Chiesa di Aquileia. Preposito di Cividale dal 1173 e dal 1188 arcidiacono di Aquileia, nel 1188 gli fu affidato l’ufficio di vicedomino.
Eletto patriarca dopo la morte di Goffredo (1194), a causa dei debiti che oberavano il patriarcato aquileiese, dal pontefice ottenne il consenso dal continuar a percepire i redditi della prepositura di Cividale. A Como, nel 1195, il nuovo patriarca ricevette dall’imperatore Enrico VI l’investitura feudale; il sovrano annullò inoltre alcuni atti del suo predecessore che gravavano negativamente sulle finanze del patriarcato. Un sostegno in questo senso giunse anche dal pontefice che esortò vescovi ed abati a sostenerlo contro gli abusi di quanti opprimevano la chiesa aquileiese. Pellegrino fu ben presto costretto a difendersi nei confronti del comune di Treviso; tale minaccia, già profilatasi all’epoca dei patriarchi Ulrico II di Treffen (1161-1182) e di Goffredo (1182-1194), rappresentò da allora in poi una costante nelle vicende storiche del Friuli. Dovette affrontare continue guerre contro Gorizia, Treviso ed Ezzelino III da Romano; si dovette scontrare anche con la Repubblica di Venezia che ottiene il giuramento di fedeltà dalla città di Pola nel 1195. Sul fronte interno le rivalità fra il Patriarcato ed i conti di Gorizia risultano evidenti nel congresso tenuto a San Quirino nel 1202: Mainardo II, di ritorno dalla terza crociata, uscì dalla lega ghibellina, ottenendo la sovranità sul castello di Gorizia ed il possesso delle terre fino ad allora da lui occupate, giungendo addirittura ad emettere moneta propria. Sull'altro fronte, egli continuò la guerra contro Treviso, giungendo ad assediare Pordenone (appartenente alla famiglia dei Babenberg che assieme a Treviso, ai conti di Gorizia, Ezzelino II ed i di Prata faceva parte della lega ghibellina), per essere però sconfitto dalle truppe della lega presso Valvasone nel 1201. In un congresso tenutosi a San Quirino, il 27 gennaio od il 13 dicembre 1202 cercarono di mediare la pace fra i due contendenti il fratello Bernardo, il nipote Ulrico II, Leopoldo VI di Babenberg duca d'Austria e Bertoldo IV d'Andechs duca di Merania e marchese d'Istria. Il risultato fu l'uscita di Gorizia dalla lega ghibellina, l'ottenimento della piena sovranità per il castello di Gorizia ed il possesso delle terre fino ad allora occupate. Pellegrino II strinse infine un'alleanza con Venezia contro Treviso, che fu costretta ad accettare la pace. Nella guerra scoppiata tra Ottone di Brunswich e Filippo di Svevia nel 1198 Pellegrino II si mantiene neutrale. Dopo pesanti proteste dell'arcivescovo di Salisburgo, possessore delle miniere di argento e relativa zecca di Friesach in Carinzia, circa il fatto che gli stati vicini imitassero le sue monete, la dieta imperiale di Milano proibì nel 1195 la coniazione di monete di quel tipo da parte di terzi. Pellegrino ricorse in appello rivendicando il diritto di battere monete d'argento rilasciato dall'imperatore Corrado II il Salico al patriarca Poppone (datato 11 settembre 1028) che gli storici in seguito sveleranno essere un falso. Appare evidente il deteriorarsi della situazione politica del patriarcato che fino ad allora, grazie al sostegno incondizionato degli imperatori, non era mai stato costretto ad impegnarsi nella difesa di propri confini occidentali. Tale mutamento deve essere ricondotto alla progressiva presa di coscienza da parte dei comuni dell’Italia nord-orientale della loro effettiva potenza. Nel 1198, le truppe del comune di Treviso, alleatosi con Vicenza e Verona, devastarono le terre dei vescovi di Belluno, Feltre e Ceneda. Nonostante le minacce del pontefice, il vescovo di Ceneda Matteo fu costretto a rifugiarsi presso il patriarca. Pellegrino cercò allora il sostegno di Venezia e, contraendo un patto di mutua assistenza militare, si fece cittadino di quella città. La situazione del patriarca fu ulteriormente complicata dal fatto che anche i conti di Gorizia, avvocati della chiesa di Aquileia, si allearono con i Trevigiani per approfittare così della situazione. A San Quirino presso Cormòns, nel 1202, fu sottoscritto un patto che definì la sorte dei feudi goriziani nel caso la dinastia si fosse estinta; in occasione delle trattative si stabilì inoltre quali fossero precisamente i diritti connessi all’ufficio dell’avvocazia. Il vescovo di Ceneda nel 1203, pur riservandosi alcuni diritti, cedette alle richieste dei Trevigiani che da allora avrebbero esercitato nel comitato di Ceneda la giurisdizione con le stesse modalità che essi già esercitavano nel vescovado di Treviso. Anche Pellegrino venne a patti con il comune di Treviso e, tentando nei limiti concessi di salvaguardare l’integrità territoriale e dei confini del patriarcato, accettò di non esigere il pagamento dei danni procurati dai Trevigiani alle sue terre. Dal punto di vista pastorale Pellegrino tentò, senza molto successo, di imporre a Poppone, successore del preposito Gabriele di Aquileia († 1198/99), il rispetto della costituzione capitolare emanata da Ulrico II. Poppone pretendeva infatti di amministrare e di godere dei redditi di pertinenza del capitolo; tale atteggiamento potrebbe essere fatto risalire all’origine germanica di Poppone. È infatti ben noto come il clero oltralpino, profondamente feudalizzato, fosse poco disponibile ad accettare quanto proposto dagli ambienti legati alla riforma. Al preposito, tuttavia, fu consentito, anche dopo un esplicito invito del pontefice a rispettare quanto stabilito ai tempi di Ulrico, di ingerirsi nelle nomine dei canonici e di continuare ad amministrare alcuni beni capitolari. Il patriarca rimase sempre profondamente legato a Cividale: commissionò infatti la grande pala d’argento dorato che ancor oggi è conservata nel duomo di quella città. L’opera, in origine concepita come “antepedium”, adornò l’edificio riedificato grazie all’impegno del patriarca, dopo che un incendio del 1186 l’aveva completamente devastato. La pala rappresenta la Madonna in trono fra gli arcangeli Michele e Gabriele. Fra i venticinque santi disposti in tre registri ai lati della Madonna, che sovrasta il ritratto del committente ed un’iscrizione con l’invocazione del patriarca alla Vergine, spiccano gli aquileiesi Ermagora, Fortunato ed Ilario, ma anche Donato, protettore di Cividale, e Paolino d’Aquileia. La cornice è decorata dai busti dei profeti; nello sguincio interno si legge un’iscrizione votiva, o meglio un carme epigrafico in versi leonini. La pala fu probabilmente eseguita a Cividale da maestranze “lagunari”, forse giunte in Friuli al seguito del patriarca che, come già ricordato, aveva stretto un patto di alleanza con Venezia; non si esclude tuttavia possa essere stata eseguita da orefici locali. L’opera documenta l’affermarsi in Friuli del linguaggio artistico veneto-bizantino, attraverso il quale, filtrata, ebbe modo di diffondersi nel patriarcato anche l’esperienza dell’arte romanica dell’Italia padana. Il Friuli dunque, verso la fine del XII secolo non era più sottoposto unicamente agli influssi del mondo germanico, ma era rivolto piuttosto alla realtà artistica della città lagunare dove si procedeva alla graduale fusione del linguaggio bizantino con elementi romanici provenienti dalla terraferma. La pala cividalese era sormontata dalla croce d’argento sbalzato nella quali i riflessi del romanico emergono ben più chiaramente nel robusto modellato del corpo del Cristo. Alle estremità della croce furono aggiunti in età gotica quattro clipei lobati con le immagini della Vergine, di san Giovanni, di un angelo e di Adamo liberato dal Limbo. Una pala, probabilmente simile a quella commissionata per il duomo cividalese, fu donata, assieme ad un calice dallo stesso Pellegrino II alla chiesa d’Aquileia, ma in seguito fu data in pegno ai Veneziani e per incuria andò perduta, poiché non si provvide a riscattarla. Pellegrino morì il 15 maggio 1204 e fu tumulato nella basilica di Aquileia.

Date

26 Novembre 2020

Tags

Aquileia, Massimo Dissaderi, Patriarchi