Ulrico di Treffen

Ulrico di Treffen

Il governo di questo patriarca (1161 – 2 aprile 1182), che s’innesta tra il lungo patriarcato di Pellegrino I (1131-1161) e il patriarcato di Goffredo (1183-1194), rappresenta una decisa svolta nella tradizionale linea politica perseguita dai suoi predecessori e prepara il terreno a quella che i successori perseguiranno, pur con molte incertezze e ripensamenti. Benché egli provenisse, come era tradizione, dall’“entourage” nobiliare tedesco vicino almeno politicamente alla corte imperiale, Ulrico perseguì gli interessi d’affermazione regionale del suo principato ecclesiastico piuttosto che assoggettarlo alle esigenze della grande strategia imperiale. Donde il suo atteggiamento all’apparenza ondivago di fronte alle istanze che provenivano dalla corte di Federico I e dalla curia antipapale e di fronte alle insistenze per una piena adesione allo schieramento papale che gli vennero rivolte dai vescovi sostenitori di Alessandro III; ciò almeno finché Ulrico non si decise di schierarsi apertamente a fianco del papa romano. Ma questa decisione fu probabilmente suggerita dall’opportunità politica alla constatazione del mutato equilibrio delle forze in campo. Egli discendeva dalla potente famiglia carinziana dei conti di Treffen, ramo collaterale di una stirpe della Svevia (conti di Althausen-Veringen): unico erede maschio di Volfardo II e di Emma, figlia di Verigant avvocato della Chiesa di Gurk, venne eletto in un momento di forti attriti tra Impero e Papato (1161). Alessandro III, infatti, si vedeva contrapposto un papa di nomina imperiale, Vittore IV, e il patriarca aquileiese avrebbe dovuto recarsi a rendere omaggio a quest’ultimo, per obbedienza al suo “dominus” temporale, dal quale aveva pure ricevuto l’investitura in Pavia (29 settembre 1161). Al contrario, Ulrico si accostò al fronte papale, evitando l’atto di ossequio e subito ottenne la potente mediazione dell’arcivescovo di Salisburgo, Eberardo, che era diventato il capofila del partito filo-papale nelle Germanie. Infatti, subito dopo la diffusione della notizia della sua elezione, Eberardo gli aveva scritto una lettera di congratulazioni, e probabilmente di sondaggio, cui il patriarca aveva risposto in termini diplomatici ma tutt’altro che ostili. Da qui appunto la mediazione dell’arcivescovo di Salisburgo presso Alessandro III e il legato pontificio Ildebrando, poiché vide nell’atteggiamento di Ulrico gli indizi di una posizione favorevole alla curia papale. E i rapporti tra i due prelati giunsero anche ad un incontro a Villaco (dicembre 1161), in occasione della solenne investitura del nuovo duca di Carinzia Ermanno. Si deve considerare che la posizione del patriarca era assai delicata: il feudo del comitato friulano era sostanzialmente legato a filo doppio all’autorità imperiale, mentre la cristianità era spaccata tra l’obbedienza verso la sede apostolica e la lealtà verso l’imperatore. Donde è difficile decifrare quale fosse la linea di governo che Ulrico intendeva seguire, poiché non sono note le circostanze della sua elezione. Qualche elemento chiarificatore potrebbe provenire da un atto politico imperiale: Federico I si premurò di revocare la concessione dell’intero vescovado di Belluno “in temporalibus”, che aveva fatto in favore di Pellegrino appena il 15 febbraio 1160, certo per ricompensarlo dell’aperto sostegno alla causa imperiale dimostrato al sinodo di Pavia (5 febbraio 1160). Siffatta revoca si potrebbe intendere sia come un atto di ammonimento o di diffidenza vero il neo-eletto patriarca sia come un provvedimento prudenziale a fronte della prevedibile difficoltà di governo che Ulrico avrebbe incontrato nei primi periodi del suo patriarcato. D’altro canto però Burcardo di Colonia il cancelliere imperiale al seguito del neo-eletto patriarca, narra nel suo rapporto che egli era stato incaricato d’immettere Ulrico nel corporale possesso delle regalie patriarcali e del vescovado di Belluno; laonde è lecito supporre, come fece osservare il Paschini, che ancora alla fine del 1161 la revoca non fosse stata espressa, a significare che il patriarca godeva della fiducia imperiale e furono invero i suoi successivi atteggiamenti a incrinare il rapporto tra lui e la curia di Federico I, fino ad indurre l’imperatore all’atto di revoca. Sta di fatto che Ulrico assunse un atteggiamento “riservato”, tanto da non ottenere la consacrazione per diversi anni. A rompere questo “ritegno” si annovera un’azione di difficile interpretazione: d’improvviso nel febbraio 1162 egli assaltò Grado, senza che se ne possa individuare la ragione, anche perché Eberardo di Salisburgo aveva interceduto per lui presso il patriarca gradense Enrico, che aderiva da sempre al fronte anti-imperiale. Così diventa lecito ipotizzare che l’impresa s’integrasse in un disegno di totale restaurazione dei diritti della Chiesa Aquileiese che Ulrico potrebbe essersi proposto come prioritario. Da valutare quindi quali siano stati i fattori tali da spingere il patriarca ad un’azione piuttosto azzardata: contrastare “de facto” la conferma dei diritti patriarcali e metropolitici gradesi emessa da Alessandro III il 13 giugno 1161 o unire all’eliminazione del contendente gradese sulle giurisdizioni istriane e venete il contributo alla politica anti-comunale e anti-papale di Federico I (l’imperatore aveva aperto, infatti, le ostilità con Venezia)? Tuttavia in questa azione militare Ulrico venne catturato da una flotta veneziana e dovette scendere a trattative con Venezia. In seguito a questa vicenda si constata un suo sensibile avvicinamento al fronte imperiale: nell’agosto 1162 era presso Federico I a Torino e allora aderì formalmente all’antipapa Vittore IV, provocando inevitabilmente la condanna da parte di Alessandro III. Poiché si era posto al servizio dell’imperatore, Ulrico non poté sottrarsi dal compiere una missione in favore della politica imperiale, addirittura a Salisburgo, nel cuore della resistenza ecclesiastica a Federico I. Insieme con Conone vescovo di Concordia, il patriarca doveva tentare di convincere Eberardo a rientrare dal dissenso e aderire al disegno imperiale di riduzione dello scisma. Inutilmente: nel novembre 1163 Ulrico svolse il suo incarico, ma con una linea possibilista, almeno a quanto riferì lo stesso Eberardo in una lettera al legato pontificio Ildebrando, che non poteva certamente persuadere il combattivo arcivescovo. Ciò dimostra quanto Ulrico fosse poco convinto della posizione imperiale che aveva abbracciato e quindi che il suo appoggio a Federico I possa essere interpretato come parzialmente opportunistico e promosso dalle contingenze politiche. Morto Vittore IV (20 aprile 1164) e rientrato in Germania l’imperatore (ottobre 1164), Ulrico valutò pienamente la difficoltà della sua posizione a fronte della lega di comuni che prese a formarsi in Veneto sotto l’egida di Venezia (la lega riuniva, oltre a Venezia, Treviso, Verona, Vicenza e Padova). Talché egli prese a distanziarsi dal fronte imperiale: non partecipò, infatti, al sinodo di Würzburg del maggio 1165, convocato da Federico I per compattare il fronte degli aderenti all’antipapa Pasquale III, eletto il 22 aprile 1164. Si deve ritenere che in ciò fosse spinto anche dalle erosioni a danno della sua autorità che gli aderenti alla lega comunale andavano perpetrando, oltre che dalle opportunistiche manovre di affrancamento giurisdizionale che enti e feudatari aquileiesi andavano svolgendo. Per fare qualche esempio, Treviso riuscì a persuadere infatti il comune di Caneva ad aderire a patti alla lega; l’abate di Sesto al Reghena, da parte sua, per difendersi dalle pretese giurisdizionali patriarcali, aveva fatto appello prima alla curia imperiale e quindi a Alessandro III; il “dominus” di Gorizia, Enghelberto, infine, aveva preso sotto la sua protezione l’abbazia di Sesto, affidandola al patronato romano dei Frangipane, suoi consanguinei. Al fine di contrastare tante erosioni, Ulrico mirò a rafforzare invece enti e personaggi che fossero fedeli e solidali con il potere patriarcale, come il capitolo di Cividale (18 gennaio 1165 donazione del manso di Grupignano; 20 aprile 1167 donazione di un prato e due campi a Porta del Ponte), quello cattedrale di Aquileia (26 maggio 1172 donazione di tutte le decime patriarcali nel distretto aquileiese) o l’abate di S. Paolo di Lavant (concessione dell’esenzione dalla muta di Aquileia). La posizione politica del patriarca divenne chiara quando Federico I fu costretto a rientrare in Italia per riaffermare i suoi diritti contro la lega dei comuni, allargatasi anche alla Lombardia (1168): tra la fine del 1167 e il 1169 Ulrico compì una serie di atti che dichiaravano apertamente la sua vicinanza al fronte del papa e dell’arcivescovo di Salisburgo. Tanto che la feudalità friulana lo contestò aspramente il sabato santo del 1169 (19 aprile), quando egli riuscì a far pronunciare il nome di papa Alessandro durante la liturgia della benedizione del cero pasquale. È da porre in questo lasso di tempo la sua conferma a patriarca da parte dell’autorità papale. L’obbedienza del patriarca di Aquileia ad Alessandro III gli fruttò nel 1169 il titolo di legato papale, segno evidente della piena fiducia che oramai aveva conseguito presso la curia pontificia e la lega anti-imperiale. Negli anni successivi il patriarca dimostrò grande autorità ed energia nel governare il suo principato nella posizione di opposizione all’Impero, giungendo anche ad azioni di forza (per esempio contro Erbordo di Partistagno e Mattia di Soffumbergo) per circoscrivere il fronte imperiale della feudalità friulana. Tutto ciò alla fine permise al fronte papale di rafforzare lo schieramento antifedericiano, che allora andò dall’alta Italia all’Ungheria fino alla Baviera di Enrico il Leone. Il patriarca di Aquileia divenne anzi il principale sostenitore ecclesiastico della causa di Alessandro III in questa vasta area, succedendo alla guida del partito fino ad allora tenuta dagli arcivescovi di Salisburgo. Tale scelta di campo, non vi è ragione di dubitare suggerita anche da oneste ragioni spirituali, contribuì non poco a conferire a Ulrico un progressivo notevole ascendente sulla società patriarchina, che finì per assoggettarsi in buona misura alla sua autorità. In questo torno di anni diversi enti religiosi aquileiesi ottennero conferme di privilegi e riconoscimenti di diritti e giurisdizioni sia da parte della sede apostolica sia da parte della curia imperiale (il capitolo di S. Felice di Aquileia con bolla papale del 24 aprile 1174; il monastero di S. Maria di Aquileia con bolla papale del 27 aprile 1174; il capitolo di S. Stefano di Aquileia con bolla papale del 26 maggio 1174; l’abbazia di S. Martino alla Beligna con bolla papale del 29 giugno 1174 o 1176; il capitolo cattedrale di Aquileia con bolla papale del 7 luglio 1176, e con diploma imperiale del 20 luglio 1177). Ciò andava a rafforzare l’elemento propriamente ecclesiastico nella compagine feudale del patriarcato, secondo un lento processo di accentramento e di compattazione delle proprietà e delle giurisdizioni che coinvolgeva la stessa autorità patriarcale. In tal senso, constatando l’attenzione che Ulrico rivolse parimente agli enti monastici (per esempio l’assegnazione della chiesa di S. Giovanni di Gansdorf al monastero di Viktring del marzo 1169; le concessioni in favore dell’abbazia di Arnoldstein del 1169; la concessione di un manso al monastero di Admont nel 1169; la confermazione dei diritti e dei beni all’abbazia di Sittich del 1169; la donazione della chiesa di S. Pietro a S. Jakobsberg all’abbazia di Ossiach nel 1171), è stata formulata l’ipotesi di una strumentalizzazione di questi ultimi al controllo capillare degli assi viari friulani da parte del patriarca, controllo funzionale anche alla politica di sostegno alla lega anti-federiciana dell’alta Italia. Proprio in direzione del rafforzamento delle capacità di dominio del patriarca può essere letta anche la concessione che Ulrico fece in favore di Cividale con il privilegio del pubblico mercato, concessione confermata il 12 febbraio 1176 con l’aggiunta del privilegio dell’“advocatus fori”. L’atto patriarcale, che avvantaggiava grandemente il centro murato cividalese, era insieme il riconoscimento del crescente peso non soltanto economico del centro rispetto alla vecchia Aquileia e la ricerca di un appoggio adeguato all’autorità patriarcale nelle “buone città”, secondo una prassi che accomunava alla politica imperiale quella di tanti grandi principati territoriali. Preoccupato di consolidare vieppiù il potere del principe ecclesiastico, che nel quadro istituzionale del Friuli feudale passava attraverso la detenzione di un ingente patrimonio fondiario, Ulrico contribuì anche personalmente a dotare di adeguati beni territoriali la camera patriarcale: nel 1163 egli aveva ceduto alla Chiesa di Aquileia, infatti, in accordo con il padre Volfrado II e la madre Emma, tutti i suoi beni ereditari rappresentati dai castelli di Treffen e di Tiffen con l’intero corpo dei ministeriali, dai possedimenti attorno al lago di Ossiach e alla cittadina di Villaco, cessione confermata dall’imperatore il 25 gennaio 1180. Con questa cospicua donazione il patriarcato ottenne d’ingrandire enormemente la propria influenza giurisdizionale nella Carinzia. Ed è da credere che il patriarca avesse contribuito non poco alla cessione in favore della Chiesa aquileiese del cosiddetto “marchesato di Attimis” effettuata da Ulrico di Attimis nel 1166 (resignazione di cinque ville feudali aquileiesi) e nel 1170 (donazione dei beni famigliari, effettuata insieme con la moglie Diemoda). Il feudo di Attimis viene citato nella lettera di Federico I a Ulrico del 20 luglio 1177 e in una seconda lettera dello stesso giorno, dove si tratta di Corrado di Attimis, che viene raccomandato al patriarca, affinché risolva i vari problemi di feudo e di patrimonio. Nei primi anni Settanta l’arcivescovado di Salisburgo subì la vendetta di Federico, uscendone decapitato: spettò quindi al patriarca di Aquileia assumere l’onere di dirigere il partito papale in Germania, movendosi altresì con scaltrezza per non suscitare anche su di sé e il suo principato le ire imperiali. Una vera e propria rete di relazioni venne stesa da Ulrico tra Aquileia, Salisburgo, Trento, Gurk, Reichersperg, Tegernsee e monasteri, abbazie, chiese e enti religiosi per mantenere unito il partito papale e collegato con la Curia romana. In ciò egli si servì degli offici del consanguineo Otto preposito di Reitenbuch. La sconfitta militare di Federico I a Legnano il 29 maggio 1176 fu anche una sconfitta politica dell’intero fronte imperiale: a quel punto l’imperatore decise, infatti, d’abbracciare la via diplomatica, lasciando del tutto lo spazio alla lega dei comuni. Ulrico, in qualità di effettivo referente del fronte papale in Germania e alta Italia, venne sollecitato dallo stesso imperatore a partecipare al concilio pacificatore che avrebbe dovuto tenersi a Ravenna il 2 febbraio 1177. Tuttavia l’affare era stato condotto innanzi senza tenere in conto i comuni della lega italica, che si mossero nei confronti di Ulrico dissuadendolo dal partecipare al concilio. D’altronde, la sua linea politica, favorevole a una soluzione transattiva del conflitto, non era gradita affatto ai rettori dei comuni della lega, che vi vedevano piuttosto un ambiguo e pericoloso avvicinamento al fronte imperiale. Ulrico preferì allora attendere istruzioni dalla curia romana, che per parte sua aveva posto come condizione ineludibile alle trattative di pace la partecipazione dei rappresentanti della lega comunale. Si andò così profilando vieppiù un ruolo primario del patriarca di Aquileia quale mediatore tra le parti. Però i Trevigiani, probabilmente spinti piuttosto dall’ambizione di scalzare le giurisdizioni patriarcali che da legittimo timore, attaccarono il patriarcato con l’ausilio della villa di Caneva, assediando Cavolano. Il 31 marzo 1177, però, il podestà di Treviso dovette chiarire la posizione a Venezia, su mediazione del doge e alla presenza del patriarca, ritirando le milizie comunali e scindendo il patto giurato con la comunità di Caneva. Nel frattempo Ulrico s’industriava per contribuire alla migliore conclusione delle trattative tra l’imperatore e la curia papale, rifiutando di schierarsi del tutto in favore di Federico, anzi sostenendo di compiere migliore servizio all’Impero agendo in veste di mediatore, specie per far conseguire all’imperatore un ingente prestito da parte dei Veneziani. Quando ebbe a compiersi l’incontro finale tra papa e imperatore a Venezia, Ulrico, presente con largo seguito di suoi suffraganei e nobili, completò la sua missione di mediatore, traducendo l’omelia papale a Federico I dal latino al tedesco. In quel torno di anni le deboli giurisdizioni carinziane venivano tuttavia attaccate dai ministeriali del duca di Carinzia: il patriarca improvvisò una spedizione, ma giunse tardi e, essendo impreparato, preferì rientrare nel patriarcato, dove tenne un sinodo (2 novembre), del quale non ci sono stati tramandati gli atti. Diversi ministeriali tentavano di usurpare i beni immuni degli enti ecclesiastici aquileiesi, come nel caso del capitolo di Cividale, che elevò protesta alla curia imperiale (lettera di Federico a Ulrico perché facesse giustizia, forse del 1177). L’incertezza del momento spinse il patriarca a conseguire dalla curia imperiale un diploma di generale protezione e confermazione dei diritti e dei beni della Chiesa di Aquileia, al fine di scoraggiare ogni intromissione dei feudatari e dei ministeriali e di detenere un valido strumento di salvaguardia e repressione. Accanto a questo diploma Ulrico si fece emanare dalla curia papale un analogo documento di protezione e di conferma, soprattutto incentrato sulle giurisdizioni ecclesiastiche. Importante luogo hanno in questa bolla i monasteri, che rappresentavano ancora per il patriarcato un fondamentale elemento di controllo e di finanziamento sul territorio. Tutto ciò è insieme elemento di forza del potere patriarcale e segno di incipiente incrinamento della sua autorità, onde Ulrico decise di procedere senza indugi a elaborare forme differenti di controllo sul territorio, rispetto a quelle feudali tradizionali. Egli mutuò dalle strategie di affermazione regionale delle dinastie principesche alcune “procedure”, che poi applicò a tutto vantaggio del principato ecclesiastico proprio in un contesto nel quale diventavano sempre più forti le usurpazioni e le erosioni delle giurisdizioni di vescovi e diocesi da parte di ministeriali, liberi feudatari e “advocati ecclesiae”. Il 30 luglio 1180 a Roma, forse proseguendo in altro modo ciò che aveva tentato nel 1162 “manu militari”, Ulrico giunse finalmente a una risoluzione del contenzioso secolare con il patriarcato di Grado. Dietro a questa composizione si intravede da una parte il peso progressivo di Venezia, risultata la grande vincitrice nella lotta tra papato, Impero e comuni italiani, peso che si manifestava con pressioni crescenti per eliminare ogni serio ostacolo nell’egemonia sull’alto Adriatico, e dall’altra, oltre all’offuscamento dell’autorità imperiale, soprattutto un coincidere d’interessi tra Venezia e il patriarcato, che stava cercando di controllare il nuovo sbocco economico a fronte di una sempre più intraprendente classe di ministeriali. Alla presenza di Alessandro III, dunque, si risolse per la parte gradese rinunciando a tutti i diritti giurisdizionali sull’Istria e sulle diocesi dell’entroterra veneto, cedendo Grado i suoi beni fondiari in Friuli, ma non quelli istriani, e limitandosi a percepire il contributo del vino da Capodistria. Per parte aquileiese, invece, Ulrico consentì a cedere le due pievi di Latisana e di San Fior di Conegliano, salvo i tre quarti della decima. Ultima grande iniziativa di Ulrico fu la riforma della vita canonicale nel capitolo di Aquileia, ente cui teneva in modo particolare (già il 3 aprile 1180 gli aveva donato la “statio” nel foro di Aquileia, con l’obbligo delle celebrazione annuale dell’officio di santa Maria Maddalena). Così, il 23 febbraio 1181, emanando una costituzione con l’autorità legatizia, il patriarca obbligò alla vita comune i canonici, equiparando vestiario e rendite; a tal fine le rendite erano poste in comune. Inoltre si poneva definitivamente termine alle ingerenze del preposito nella gestione dei beni capitolari. A ribadire l’autorità patriarcale sui monasteri dipendenti, Ulrico si recò personalmente a Sittich per consacrarne gli altari della chiesa (18-21 dicembre 1181), anche per confermare il dominio feudale della Chiesa di Aquileia in vaste zone della Carniola, anche perché il diploma di conferma imperiale del 1180 non aveva affatto riconfermato la cessione delle due marche dell’Istria e della Carniola, concesse nel 1077 e assegnate di recente al casato degli Andechs duchi di Merania. Ulrico morì il 2 aprile 1182 e venne sepolto nella sua cattedrale di Aquileia.

Date

26 Novembre 2020

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Aquileia, Giordano Brunettin, Patriarchi