Fortunaziano fu eletto vescovo in coincidenza con gravi tumulti scoppiati negli edifici di culto aquileiesi. Nel 343 partecipò al concilio di Sardica (l'antico nome della attuale città di Sofia) e sottoscrisse gli atti finali contro gli ariani. Nel 345 Fortunaziano ospitò ad Aquileia Atanasio di Alessandria, sostenitore dell'ortodossia contro l'arianesimo. Lo stesso papa Liberio manifestò apprezzamenti ed elogi nei confronti di Fortunaziano in una lettera indirizzata ad Eusebio di Vercelli. Nel 358, dopo la morte di Costante, al contrario, Fortunaziano passò al partito degli anti-atanasiani, sottoscrivendo il credo ariano di Sirmio unitamente ad altri vescovi. Il nome di Fortunaziano è legato anche all'ampliamento della Basilica di Aquileia. San Gerolamo afferma che, per farsi capire dal suo popolo, Fortunaziano compose un commento ai Vangeli in lingua rustica. Questo viene considerato uno dei primi esempi del passaggio dal latino al friulano. Poco sappiamo della comunità cristiana di Aquileia sotto i successori del vescovo Teodoro, Agapito e Benedetto, fino all’elezione di F., di origine africana; questa è da collocarsi non molto tempo prima del 343, nel momento tempestoso della controversia ariana, quando Aquileia partecipò direttamente alle vicende politico-religiose che interessarono altre Chiese occidentali. In effetti di torbidi registrati ad Aquileia in relazione alla controversia ariana si era parlato già al concilio di Serdica del 343, dove fu sanzionata l’innocenza di san Atanasio e la definizione di Nicea contro gli ariani. Di F. di Aquileia, sappiamo che fu presente al concilio, ma che vi abbia esercitato un’attività sua personale non ci consta, se non che, come tutti gli occidentali, si schierò dalla parte di Atanasio, il campione della fede nicena. Inoltre dalla lettera sinodica inviata a papa Giulio siamo informati su un tristissimo attentato verificatosi da poco in Aquileia ad opera degli ariani. Il papa, fra l’altro, era pregato di ratificare anche la sentenza pronunciata contro i due giovani empi e sconsiderati («adolescentibus impiis et imperitis»), Ursacio vescovo di “Singidunum” (Belgrado) e Valente di “Mursa” (Essek), acerrimi nel disseminare la malvagia dottrina ariana; inoltre Valente aveva abbandonato la sua sede episcopale per occupare quella di Aquileia; ne erano nati tumulti, nei quali un fratello di nome Vittore o Viatore (di ignota sede), che non era riuscito a fuggire, era stato calpestato così da morirne tre giorni dopo nella stessa Aquileia. È chiaro che questa tragedia doveva essere avvenuta non molto prima, sia perché i due ariani Ursacio e Valente sono trattati ancora da “adolescentes”, sia perché non si sarebbe atteso lungo tempo per far giustizia di un fatto così grave e inaudito in Occidente. Perciò è probabile che l’elezione di F. sia avvenuta attorno al 342, durante gli infruttuosi attentati ariani. Secondo il Biasutti, fino a questa data avrebbe avuto il predominio nella comunità cristiana aquileiese l’elemento fondatore, di matrice grecoalessandrina, come confermerebbero anche i nomi greci dei primi vescovi del catalogo; la sommossa che scoppiò allora, provocando nella basilica il travolgimento e la morte del vescovo Vittore, sarebbe un segno della rivalità fra cattolici e ariani, ma più ancora della svolta fra il predominio greco e l’introduzione dell’elemento latino nella gerarchia. Chiuso il concilio di Serdica, F. ritornò ad Aquileia, dove alcuni mesi dopo giunse anche Atanasio. Qui il patriarca alessandrino celebrò la pasqua del 345 assieme a F. e alla presenza di Costante, imperatore d’Occidente e suo protettore; di questo soggiorno aquileiese lo stesso Atanasio ci ha lasciato due testimonianze nella sua Apologia a Costanzo (356), al punto in cui si difende dell’accusa di aver sobillato Costante contro di lui (cap. III) e dall’imputazione di aver celebrato ad Alessandria in una chiesa non ancora consacrata (cap. XV): a questa seconda accusa obietta di aver veduto fare liberamente la stessa cosa anche a Treviri e ad Aquileia per la moltitudine dei fedeli accorsi all’assemblea liturgica, onorata in Aquileia anche dalla presenza di Costante. Intanto Costanzo, rimasto incontrastato padrone anche dell’Occidente, fu abilmente riconquistato all’arianesimo, mentre i vescovi ariani ripresentavano nuove accuse contro Atanasio. Perciò papa Liberio giudicò necessario radunare un nuovo concilio generale per dare assetto alla Chiesa sconvolta e nel 353 inviò dei legati a Costanzo per sollecitare la convocazione di un concilio proprio ad Aquileia, certo anche per la fiducia che doveva ispirare a Liberio il vescovo F. Viceversa il concilio fu tenuto ad Arles sotto l’influenza di Ursacio e Valente, emissari dell’arianesimo per l’Occidente, provocando la fiera denuncia di papa Liberio. Tale fiducia del papa nel vescovo di Aquileia fu peraltro mal riposta, come risultò dall’arrendevolezza da lui dimostrata in seguito al concilio di Milano del 355: qui Costanzo volle assolutamente la condanna di Atanasio e chi non si piegò, come lo stesso Dionigi di Milano, allora sostituito dal cappadoce Aussenzio, fu esiliato; F. invece, sotto le pressioni delle minacce e con la maggior parte dei vescovi, sottoscrisse la condanna di Atanasio non senza aver però resistito. Quale fosse la sua condotta negli avvenimenti successivi è una questione molto complessa, strettamente collegata al dibattuto problema della presunta caduta di papa Liberio. Ma, comunque si risolva la questione di papa Liberio e dell’autenticità delle lettere liberiane dall’esilio tramandateci dai Frammenti ilariani, risulta evidente che F. appare desideroso di secondare gli intenti di Costanzo, disposto al compromesso teologico pur di ottenere la pacificazione religiosa, mentre è difficile che le accuse rivoltegli a questo proposito siano del tutto false, tanto più che, a differenza di altri suoi confratelli nell’episcopato condannati all’esilio, non ebbe a soffrire alcuna molestia. È stato ritenuto anche recentemente un sottoscrittore del credo ariano di Sirmio, ma senza precisare di quale delle quattro formule sirmiesi si trattasse, non tutte – com’è noto – allo stesso modo eterodosse. Certo F. cedette alle minacciose pressioni di Costanzo per la condanna di Atanasio e per la comunione con i vescovi ariani nel concilio di Milano (355), ma non possediamo il documento dogmatico sottoposto alla ratifica dei vescovi per volere dell’imperatore. Lo stesso F. sarebbe stato in seguito l’autore della presunta caduta di papa Liberio; secondo la testimonianza di Girolamo (De viris illustribus, 97), egli avrebbe consigliato («sollicitavit») a Liberio, sulla via dell’esilio, di non resistere e, a Sirmio, sulla via del ritorno, egli l’avrebbe indotto («fregit») a cedere. Ma anche sulla formula di fede sottoscritta da Liberio, vinto dalle sofferenze dell’esilio e dalle insistenze degli amici, non mancano dubbi e perplessità. In definitiva, da tutta la vicenda quale si può ricostruire sulle fonti a disposizione, appare certo che F. si allineò col partito antiatanasiano, militando verosimilmente nelle file dei semiariani e deludendo la grande fiducia riposta in lui da Liberio, secondo la testimonianza della lettera a Eusebio di Vercelli (Corpus Christianorum, IX, 123). Non sappiamo se egli abbia preso parte al disastroso concilio di Rimini del 359, essendone gli atti andati perduti, ma certo possiamo arguirlo: erano gli anni più gravi della crisi, quando san Girolamo scriveva «ingemuit totus orbis et arianum se esse miratus est» (Dial. adv. Lucif., 19, PL, 23, 181). A parte le implicazioni nelle controvresie sull’arianesimo, F., riconoscendo le esigenze del mondo rurale suburbano, aveva scritto in forma ordinata e in breve e rustico linguaggio dei Commentari, di cui fa cenno Girolamo e di cui ci sono pervenuti purtroppo solo tre frammenti. Girolamo li doveva aver direttamente conosciuti, se, nell’introduzione al Vangelo di Matteo (PL, 26, 20), attesta di aver letto gli opuscoli di Ilario di Poitiers, di Vittorino di Poetovio e di F., aggiungendo: «e sebbene poco io ne abbia preso, se ne potrebbe scrivere qualcosa degna di memoria». Nella lettera a Paolo da Concordia (ep. 10) intorno al 377, quando non conosceva ancora Origene, i Commentari di F. gli sembravano «margarita de Evangelio». Ma in seguito, quando intorno al 390 traduceva le omelie su Luca di Origene, aveva già trovato di meglio e non risparmiò i suoi giudizi al riguardo di F., ritenuto «et sensibus hebes et verbis».
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